Pubblicato su Il Venerdì di Repubblica
di Corrado Augias
Pier Luigi Bersani, figlio di un meccanico di Bettola (Piacenza) e di una casalinga cattolica, “ideologa della famiglia, nato nel 1951, laureato in Filosofia, amministratore locale, ministro, segretario di partito, uno dei pochi superstiti di quella pattuglia di politici che a suo tempo (sembrano secoli) riuscirono a diventare uomini di Stato cercando di avviare l’Italia verso la modernità. Il suo libro ha un titolo curioso: Chiedimi chi erano i Beatles; chiarisce il sottotitolo: I giovani, la politica, la storia (Rizzoli). Bersani mette per iscritto una di quelle prediche inutili (in senso einaudiano) che tante volte ha fatto parlando in piazza e in televisione, con un’abbondanza di metafore diventate proverbiali.
Bersani vede il disinteresse, l’apatia, delle nuove generazioni, capisce che in molti casi il possibile impegno è una possibilità differita, nasconde «il desiderio di una politica che non sia solo cabotaggio superficiale». Ricorda i tempi in cui l’avversario politico era ben identificato: «Il conformismo, il paternalismo, codici e valori della generazione uscita dalla guerra che non ci rappresentavano più». Oggi è più difficile, cioè sfuggente, «superare il capitalismo è un bel problema, mentre ci pensi il capitalismo si è già superato da sé». Lì introduce la sua distinzione: «Economia di mercato sì, società di mercato no». Bersani insiste sulla necessità di riabilitare la politica perché quando la politica non è più protagonista civile in un progetto di futuro cominciano i guai. La sua è una visione quasi utopistica, perché afferma: «La generosità è la materia prima della politica. Chi facendo politica trasmette l’idea di trattenere per sé zone di comodo la sta distruggendo». Esce da queste pagine il ritratto di un galantuomo con un’idea alta della funzione pubblica, che incita anche la sinistra affinché adegui il linguaggio, ascolti le persone a cui si rivolge. Gran peccato che i Bersani siano così pochi, se solo ce ne fosse qualcuno in più.