Intervista a Libertà
di Pietro Visconti
La filigrana di una relazione prima a distanza, quasi segnali di fumo, e poi diretta, anche personale. Un avvistamento precoce, troppo precoce per essere fattibile, delle qualità di Sergio Mattarella come “magister” della Repubblica. La sottolineatura che quella lontana intuizione ha retto eccome alla prova dei fatti. E l’offerta simbolica, affettuosa, di una cittadinanza piacentina per similitudine di caratteri. Pier Luigi Bersani parla di Sergio Mattarella con Libertà e sullo sfondo ci sono quasi trent’anni di politica italiana (si parla perfino dell’Ulivo, quindi…). Un ritratto con accenni anche inediti, che ci aiuta a capire il profilo del Presidente che oggi è tra noi.
Dobbiamo iniziare da lontano. Chi era Mattarella, il democristiano Mattarella, agli occhi di Bersani esponente della sinistra che fu comunista, nel tempo in cui queste identità pesavano?
«Avevo già visto Mattarella piegato sul corpo del fratello ucciso dalla mafia. Avevo visto il suo gesto di dimissioni da ministro di fronte alla Legge Mammì e avevo visto il suo ruolo dirigente e decisivo nella costruzione del nuovo Partito popolare alternativo alla destra. Le identità antiche stavano diventando un avvicinamento a identità nuove. Da tempo intravedevamo un percorso comune con gli esponenti della sinistra democristiana. Anzi stavamo già arrivando a prospettive nuove: in Emilia Romagna all’epoca della mia elezione a presidente nel 1995, ancor prima dell’Ulivo l’alleanza nuova era già realtà».
Un salto di fase e siamo già nel 2015, nell’avvio del governo Renzi, con i 5Stelle gonfi dei voti delle elezioni del 2013. Quali ricordi ha di come emerse il nome di Mattarella candidato al Quirinale dopo le dimissioni di Napolitano che era stato “costretto” a due anni di mandato aggiuntivo a causa dell’impasse in Parlamento?
«Prima bisogna parlare del 2013 e della vicenda dei 101».
Già, i 101 che, dopo un’assemblea unanime del Pd, nel segreto dell’urna affondano clamorosamente il nome di Prodi e certificano una situazione di grave confusione, politicamente avvelenata. Son passati già più di dieci anni. Stava dicendo che bisogna parlarne un attimo…
«Sì, ma non per rivangare a vuoto. Solo per dire – l’occasione è propizia – che qualcuno sa bene che io già allora, da segretario, avevo pensato a Mattarella come presidente. Ma non era possibile scagliare in quello che si rivelò un frullatore il nome di un membro autorevole della Corte costituzionale. Arrivò così la conferma di Napolitano, e due anni dopo le dimissioni. A quel punto spettava al Pd avanzare una proposta. C’era Renzi, ma in quell’enorme gruppo di grandi elettori del Pd la mia influenza era rilevante. A tu per tu, e fu l’unica volta che andai da lui a Palazzo Chigi, gli dissi una cosa semplice e chiara: sul nome di Mattarella non sarebbe sorto nessun problema. Renzi era abbastanza intelligente per capire che non ero uomo da ripagarlo con la stessa moneta di due anni prima».
Ma c’era o no la consapevolezza di proporre al popolo italiano una figura, come dire, poco profilata rispetto ai suoi predecessori Napolitano e Ciampi? In fondo Mattarella era stato alcune volte ministro e per periodi brevi, nella fase di governi particolarmente instabili. Poi era stato giudice costituzionale, ruolo eminente ma appartatissimo.
«Il suo carattere lo teneva appartato. Ma il suo ruolo, per chi vedeva le cose più da vicino, era stato ed era assolutamente rilevante. Molti lo hanno definito anche al momento della sua elezione come un uomo della Prima Repubblica. Niente di più inesatto: Mattarella fece la miglior legge elettorale che abbiamo mai avuto, fu un costruttore dell’Ulivo prima nella vicenda del Ppi poi da capogruppo e successivamente da vice presidente del Consiglio: un protagonista vero della fase nuova».
Cosa ricorda della “costruzione” della candidatura di Mattarella nel Pd? Vi fu immediato largo consenso? Lei ebbe contatti con lui per raccoglierne la disponibilità all’incarico?
«Ovviamente sì, contatti ci furono. Nel Pd c’era una generazione nuova che non aveva potuto conoscerlo. Ma non fui certo solamente io a testimoniarne il valore, e non mancò nessun voto».
Mattarella viene eletto il 31 gennaio 2015 con la maggioranza assoluta, 665 voti sui 1009 aventi diritto, non essendo riuscita l’elezione nei primi scrutini che prevedono i due terzi. Si può dire che ben presto i non votanti hanno avuto torto forte?
«Mi pare che molti di loro lo abbiano riconosciuto, contribuendo a rieleggerlo nel 2022 con una percentuale inferiore nella storia della Repubblica solo a quella di Pertini».
Dell’esordio del Presidente nel più alto ruolo repubblicano cosa ricorda? Lei era sui banchi di Montecitorio. Cosa la colpì nel discorso di insediamento?
«Quando disse “l’arbitro sarà imparziale, i giocatori lo aiutino con la loro correttezza”: un discorso tutto costruito sull’esattezza costituzionale. Un discorso che lo presentava e lo rappresentava bene».
Mattarella trasmette la forza della mitezza e una rara sapienza di linguaggio, mai banale e mai enfatico. Da dove, a suo avviso, attinge queste qualità?
«La classe non è acqua e nessuno sa bene da dove venga. Mi colpisce sempre la sua capacità di non essere mai sopra le righe della sua funzione, risultando tuttavia anche al più indifferente cittadino italiano una persona sincera e autentica. Si legge sempre la forza delle sue convinzioni e un’umanità che attraversa la sobrietà del linguaggio. Ma al di là di questo stiamo parlando di una figura attrezzatissima, che pensa che la vita politica e istituzionale abbia qualcosa a che fare con la morale e con la cultura».
Nelle convulsioni e nello sfibrarsi della politica italiana, è esatto dire che Mattarella ha rappresentato, e rappresenta, un pilastro di autorevolezza senza il quale la Repubblica poteva rischiare un effetto di sbilanciamento? Oppure questa lettura è esagerata?
«Se ci siamo tutti aggrappati lì, vuol dire che qualche preoccupazione l’avevamo».
Aveva già le valigie fuori dal portone del Quirinale e nel 2022, lei era ancora deputato, il Parlamento fu costretto a supplicarlo di ripensarci e rimanere. Qual è il significato che va attribuito a quell’accettazione che comportò una rinuncia per sé, per la sua vita personale?
«Abbiamo visto tutti come fu capace di sdrammatizzare e trasmettere serenità in questo passaggio. Secondo me ha pensato: si fa quel che si deve, e lo si fa nel modo giusto».
Ora Mattarella si accinge a toccare il traguardo del decennio: nessuno mai è stato al Quirinale così a lungo. La sua magistrale pedagogia repubblicana sembra aver conquistato quasi tutti gli italiani. In particolare, secondo lei, cosa gli dobbiamo come comunità nazionale?
«Di essere la prova vivente che questo Paese ha bisogno di un punto di equilibrio, che non può essere ridotto a simulacro secondo distruttivi progetti di riforma».
Il Presidente della Repubblica in visita in una città è un’occasione speciale di orgoglio municipale e riconoscimento nella comunità nazionale. Può contribuire a rivitalizzare anche lo spirito democratico che in molte circostanze – viene da pensare all’astensionismo elettorale – sembra esausto?
«Quando Mattarella richiama le profonde indicazioni sociali che vengono dalla Costituzione ci sta dicendo che una democrazia se non consegna emancipazione e uguaglianza deperisce. L’astensione dal voto in questo senso è un segnale davvero preoccupante».
Cosa ha da offrire Piacenza a Mattarella che le fa l’onore di una visita presidenziale dopo vent’anni esatti dalla precedente (Ciampi nel 2004)? Esempio di laboriosità? Apertura agli immigrati? Moderazione e rispetto degli avversari nella battaglia politica? Attenzione alle fasce deboli anche con l’apporto di uno straordinario concorso del volontariato?
«Molto di tutto questo. Ma io a Mattarella presenterei così Piacenza: una città che da sempre è passaggio obbligato fra Nord e Sud, fra Est e Ovest, più abituata a vedere andar via che a trattenere. Una città di cardinali e di partigiani, di piccoli e medi imprenditori visionari e di lavoratori stimati ovunque. L’unica realtà che ha espresso negli stessi anni i presidenti dell’Accademia dei Lincei, del Cnr e del Consiglio superiore di Sanità eppure che si nasconde, per sobrietà e riservatezza o forse per difficoltà ad alzare lo sguardo. Tutto sommato, per come La conosco carissimo Presidente, una città dove si troverebbe a suo agio. Benvenuto».