Bersani: un aneurisma, dieci anni fa. Morire? È un abbandono

Antonio Polito - Sette Il Corriere della Sera
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Mario Rossi - La Repubblica

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Intervista a Sette – Il Corriere della Sera

di Antonio Polito

«Quel giorno ho pensato che, poi, non è così difficile morire. Che morire non è un trauma. Piuttosto è un abbandono…».
Pier Luigi Bersani fa parte di un ristretto e fortunato numero di persone che la morte l’ha vista in faccia. È andato, ed è tornato.

«Era una domenica di gennaio di dieci anni fa, a Piacenza, subito dopo le feste. Andavo a prendere i giornali. All’improvviso ho sentito una coltellata. Alla testa. La certezza che stesse accadendo qualcosa di definitivo. Un dolore senza precedenti e senza rimedio. Torno a casa con i miei piedi, non so come. Mio fratello, che è un chirurgo, si fa dire al telefono da mia moglie quali sono i sintomi e ordina di chiamare con urgenza un’ambulanza. Al Pronto Soccorso di Piacenza mi fanno una Tac e vedono l’aneurisma all’arteria cerebrale. Una cosa grave, le emorragie vengono calcolate su una scala da uno a quattro, la mia era di livello tre. Dunque, c’è bisogno urgente di un intervento chirurgico. E così mi trasferiscono a Parma. Ricordo che nel tragitto pensavo: se tiro le cuoia adesso faccio proprio la figura del coglione. Ero stato io, infatti, da presidente della Regione Emila Romagna, a dire di no a un reparto di neurochirurgia a Piacenza. Preferivamo concentrare le risorse e le esperienze su centri di eccellenza, e Parma lo era. Però i nostri Pronto Soccorso sono stati tutti attrezzati per rilevare e trasmettere subito i dati, così quando arrivai a Parma già conoscevano perfettamente la mia condizione. Quattro ore sotto i ferri, e mi hanno salvato».

C’è tutto Bersani in questo racconto. In lui l’amministratore viene quasi prima dell’uomo, e certamente prima del politico. La “scuola emiliana” gli ha insegnato una fiducia pressoché taumaturgica nelle virtù terrene del buon governo; ma anche la responsabilità che si assume chi lo guida.

«In quei momenti, a dire la verità, non pensavo alla morte. Pensavo al dolore. Era insopportabile e continuo. Volevo solo che finisse. E non finì finché non mi addormentarono per l’intervento. Il dolore è un grande aiuto per non pensare ad altro. Da giovane hai paura della morte come di un trauma. In quel momento mi appariva più come la possibilità di un dolce abbandono. Ciò di cui avevo davvero paura non era la morte improvvisa, ma quella irta di tubi che non vuole arrivare mai, che ti imprigiona nel tuo corpo. Prima di operarmi il chirurgo avrebbe dovuto leggermi un lungo modulo per il consenso. Non ce n’era il tempo. Così me lo sintetizzò: 1) c’è il rischio di morte, 2) c’è il rischio di… Io lo fermai prima che continuasse e gli dissi: ho capito, il punto due è molto peggio del punto uno. Per rassicurare le mie figlie, che erano lì, chiesi a una di loro di registrarmi Roma-Juve, il che mi valse poi una maglia bianconera personalizzata omaggio di Beppe Marotta. Infine mi addormentai, e fu magnifico…».

Andata e ritorno. Al risveglio, il primo pensiero?

«Tutto intubato e pieno di fili. Il mio terrore era che il cervello non funzionasse più come prima. Poi entra mia moglie in stanza. Ci parliamo con gli occhi. Io capisco che lei capisce, e così capisco che capisco ancora tutto. Provo allora a vedere se mi ricordo le cose. Molte no, non le ricordo. Chiedo ai dottori un test. Lo fanno e va bene. La sofferenza non finì certo quel giorno, ma da quel momento sapevo che il cervello era salvo».

In cima alla testa calva che porta alla maniera di Ferrini (il personaggio del comunista romagnolo nell’Altra Domenica di Arbore, cui nelle foto giovanili assomiglia in modo impressionante) oggi Bersani sfoggia ancora il buco del tubo di drenaggio. Insieme alla più discreta cicatrice del taglio operatorio, è il segno più evidente di quei momenti. «Qualche tempo dopo incontrai a Reggio Emilia uno dei miei chirurghi. Mi disse che se volevo lo potevano chiudere: è facile, prendiamo un po’ di pelle da una natica e la trapiantiamo lì. Gli ho risposto che tenevo di più al mio sedere…».

Gli domando se ha mai pensato alla maledizione dell’ictus dei capi comunisti.

«Sì, ci ho pensato. L’equipe che mi operò mi chiese più tardi il consenso alla pubblicazione su una rivista internazionale di neurochirurgia di uno studio dedicato proprio a valutare l’evoluzione delle tecniche dai tempi dell’ictus a Togliatti (nel 1964 a Yalta) e di quello a Berlinguer (nel 1984 a Padova), fino al mio del 2014. La sostanza del lavoro era che se mi fosse successa la stessa cosa trent’anni prima non ce l’avrei fatta. Mi ha raccontato poi un giovane studente di medicina che durante il giro del reparto il primario neurochirurgo stava illustrando i gravi rischi di esito infausto dell’emorragia subaracnoidea, per poi aggiungere: certo, dopo il caso Bersani, non si può dire… Comunque, per tornare a Togliatti e Berlinguer, loro sono morti sul campo, io andavo solo a prendere i giornali».

Però quello era un momento molto amaro della sua vita politica. Aveva da poco “non vinto” elezioni che sembravano vinte, aveva dovuto rinunciare a formare il governo, poi c’era stato il tradimento dei 101 contro Prodi, e proprio in quelle settimane Renzi, suo successore nel Pd, stava sfilando il governo a Enrico Letta.

«Mah, questa è la tesi di mia moglie, che io abbia per così dire somatizzato… Io so solo che quando mi chiamarono in ospedale per dirmi del progetto di cambio della guardia Renzi-Letta a Palazzo Chigi ero già abbastanza lucido per avvisare che senza l’accordo da parte di entrambi, dunque di Letta, per me non se ne doveva neanche discutere. Poi andò come andò».

Dopo quella vicenda Bersani ha davvero cominciato una seconda vita. È come se un’aura di rispetto, di ammirazione per la sua umanità, l’avesse messo al di sopra della rissa politica quotidiana, conferendogli uno status quasi iconico, che lui asseconda con il suo proverbiale parlar per metafore, e che lo accompagna nelle frequenti apparizioni in tv e nelle numerose iniziative politiche cui partecipa «con lo spirito di un volontario dell’Auser», come dice di sé scherzando. Il primo segno ne fu il rispetto degli avversari di sempre. Berlusconi gli scrisse del suo “addolorato stupore”, ricambiando la visita che Bersani gli aveva fatto quando era finito in ospedale per la statuetta del Duomo lanciatagli sul volto a Milano. E Gasparri arrivò a dichiarargli così la sua stima: tu sei un politico, non un guitto come altri. «In ospedale mi portavano la rassegna stampa, quintalate di carta. Mi colpì il titolo di prima pagina del Giornale, allora come oggi diretto da Alessandro Sallusti. Diceva: “Forza Bersani”. Qualche tempo dopo lo incontro su un aereo da Linate. Non ci eravamo mai parlati prima, e lo ringrazio. Lui risponde: dovere. E io: mi dispiace solo che dovrai rifarlo… Fu la prima e unica volta che ho visto Sallusti sorridere».

L’ha cambiata quell’incontro ravvicinato con la morte?

«In realtà ne avevo già avuto un altro trent’anni prima; sempre a Parma, pensi un po’. Un brutto incidente stradale, decine di auto coinvolte. Mi tirano fuori i soccorritori con vertebre e gambe rotte, e sì, mi cambia la vita perché in quel momento decido che voglio avere un figlio. Ma alla morte come problema sociale, più che esistenziale, ci pensavo già da tempo. Nel 1982, avevo solo 31 anni ed ero assessore regionale ai servizi sociali, mi occupavo di carceri, di sicurezza sul lavoro, di vita nelle città. E mi viene in mente, partecipando a un convegno ad Assisi, che la morte fa parte della vita, e che quindi la politica dovrebbe occuparsene. Erano gli anni in cui il tema esplodeva nel discorso pubblico di intellettuali, sociologi e letterati; ma, allo stesso tempo, veniva invece sempre più rinchiuso per la gente normale in uno spazio privato, nel tabù di una stanza d’ospedale, dietro un paravento, sottratto alla dimensione comunitaria del passato, quando si moriva in famiglia e insieme ai propri cari. L’accompagnamento alla morte è l’unico servizio collettivo di cui non si parla se non a ridosso di vicende drammatiche ed estreme. Eppure c’è una quotidianità, un’ordinarietà che rimuoviamo. Preferiamo tutti vestirci da filosofi o da teologi, piuttosto che da governanti e riformatori. Dobbiamo invece passare dal corteggiamento filosofico all’umanizzazione di questo momento comune a tutti. O pensiamo che l’accompagnamento alla morte, così com’è oggi in Italia, vada bene solo perché nessuno è mai tornato a lamentarsene? Al tempo proposi alla giunta un grande convegno sul tema, volevo anche invitare tre grandi vecchi di allora, Tonino Guerra, Cesare Zavattini e Cesare Musatti, e farli confrontare con i giovani. La giunta regionale discusse un’intera mattinata, poi concluse che il popolo non era pronto. Ma il progetto, già quarant’anni fa, prevedeva nuove linee guida negli ospedali, cure palliative, un aiuto pubblico per morire in casa, servizi cimiteriali più umani, case protette per gli anziani che restano soli; volevo anche fare una municipalizzata delle pompe funebri per mettere fine a un certo sfruttamento privato dell’ultimo addio. E penso ancora che dobbiamo riconsiderare il nostro rapporto con la tecnica. Mi domando: come mai, mentre proviamo ad allontanare in tutti i modi possibili la tecnica dalla nascita, e promuoviamo parti naturali, in acqua, meno cesarei inutili, ci affidiamo invece completamente alla tecnica nel momento della morte? Il mio slogan è: assistiti dalla scienza sì, ma decide l’amore. La medicina può evitare il dolore inutile e dare ragionevole prevedibilità all’evento. Ma alla fine deve essere la comunità degli affetti ad avere l’ultima parola. So per esperienza che nemmeno gli antidolorifici possono tutto. C’è una battaglia culturale da fare. Portatemi a casa: c’è una frase più umana di questa?»

Bersani crede a una vita dopo la morte?

«No, non credo nella vita eterna. Non ho fede, anche se ho una forte simpatia per la fede. So bene che anche il nostro umanesimo laico ci deriva dalla civiltà cristiana, che ha proposto un dio personale. Non capisco però perché l’idea del Creatore debba essere associata all’aldilà e all’eternità. Che bisogno c’è? Ce la vediamo qui da noi, in questa vita. Niente di ciò che è umano ci è estraneo. Dopo non resta altro che il battito di ali, col passare del tempo sempre più fievole, di chi ti ricorda. La vita è un’occasione straordinaria di esperienze, da quando ti apre gli occhi a quando li chiudi per sempre, e la morte è per me una notte eterna per dormire. Penso anzi che sia proprio la nostra percezione di finitezza a rendere la vita straordinaria. Certo, ci dà angoscia sapere che il mondo andrà avanti senza di noi. Ma è proprio questa consapevolezza che produce la cultura, l’arte, la politica. Se sapessimo di essere immortali, a che pro faremmo tutto ciò?».

La personale percezione di finitezza della sua vicenda di dieci anni fa, dice Bersani, l’ha reso per esempio più libero. «Ho avuto ruoli esecutivi fin da quando ero un ventenne. Ora l’assenza di potere è per me un fatto positivo e uno stimolo creativo. La bellezza della vecchiaia è la libertà. E invece c’è gente che si sbatte fino all’ultimo per non cedere neanche un centimetro. Il potere è per me avere un’idea e farla accadere. Tutto il resto, due maroni…».

E per darmi un saggio della stagione di libertà che si sta godendo mi racconta un episodio: «Mi hanno invitato a parlare degli studenti in un’università. Alla fine, uno mi ha chiesto: ma lei, Bersani, come si definirebbe? Un uomo di sinistra, un progressista, o un riformista? Ho risposto che di sinistra mi sento, progressista mi piace, riformista lo sono stato tutta la vita. Ma se dovessi definirmi oggi direi: sono un comunista italiano». Forse una cosa così non avrebbe osato dirla neanche quando comunista lo era davvero.

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Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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Liberazione interiore Per discernere il grano e la zizzania, le pecore e i capri, i giusti e gli ingiusti, i buoni e i cattivi, i sani e i malati, potrebbe essere sufficiente distinguere chi pensa astrattamente, libero da simulacri della vita, e chi continua a credere che la sapienza sia una dea femminile chiamata "Athena", "Minerva", oppure "Sophia". "Occorre ripensare daccapo la nozione di fede" (S. Weil): dobbiamo liberare i canali cognitivi ostruiti dai simulacri della vita, essendo stati istruiti male dalle storie mitologiche.

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