Intervista ad Avvenire
di Roberta D’Angelo
È certo che la scelta della premier Meloni di non ritirare le schede dei referendum avrà un effetto boomerang su “chi ritiene che sia arrivato il momento di dare una sveglia alla politica chiusa nei palazzi”. Alfredo D’Attorre, della segreteria del Pd, si appella agli italiani – anche quelli soliti a disertare le urne.
Da sempre ci sono stati inviti a non votare ai referendum. Perché oggi è diverso?
Chiunque abbia a cuore le istituzioni democratiche dovrebbe rallegrarsi se si raggiungesse il quorum. Anche per questo suonano ancora più sconcertanti gli inviti a disertare le urne da parte di chi riveste responsabilità istituzionali di primissimo piano.
Ieri il vostro capogruppo al senato Boccia diceva che se il numero di votanti supererà quello ottenuto alle scorse elezioni da Meloni, sarebbe “un avviso di sfratto per il governo”. Concorda?
È chiaro che ci sarà comunque un segnale anche politico, però penso che i governi cambiano con le elezioni politiche. Questi referendum interpellano anche molti elettori della destra, molti astensionisti abituali che magari da diverse consultazioni decidono di non scegliere tra i partiti. Stavolta il tema è un altro: si tratta di far sentire la propria voce su questioni che riguardano direttamente la propria vita, quella dei propri figli. È un voto per i diritti, non per l’opposizione.
Nel merito il quesito sull’articolo 18 è un ritorno alla riforma Monti, giusto?
Il referendum invertirebbe un trend di precarizzazione del lavoro che va avanti da più di due decenni e cancellerebbe una norma che ha una valenza discriminante tra chi è stato assunto prima o dopo il 2015. La possibilità del reintegro rende più forte la posizione del lavoratore, reintegro che comunque deve essere deciso dal giudice.
Ma non si reintrodurrebbe l’articolo 18.
Si tornerebbe alla versione dell’articolo 18 come modificata dalla Fornero, che comunque prevede la possibilità per il giudice del reintegro del lavoratore nel caso di un licenziamento non giustificato.
Anche Gentiloni ha sposato la teoria, già smentita da Schlein, di chi vede nei quesiti sul lavoro una resa dei conti interna al Pd.
L’ho sentito dire da tanti, anche dalla destra. Quando facciamo i congressi del Pd, se va bene partecipano un milione, un milione e mezzo di persone. Dobbiamo avere il senso della misura: non sarà il congresso del Pd, che c’è stato due anni fa e ha dato un risultato.
Nella mozione di Schlein c’era la riforma del Jobs act.
Sì, lo prevedeva per la verità la mozione Schlein ma anche quella di Bonaccini. E vorrei ricordare che il superamento del Jobs act è scritto anche nel programma con cui gli attuali parlamentari del Pd sono stati eletti nel 2022, segni che prima del congresso che ha eletto Schlein era maturata una riflessione critica su quelle scelte e sulla necessità di correggerle. Poi l’ultima Direzione ha assunto una posizione chiara, rimettendo il Pd dove deve stare: dalla parte del lavoro e contro la precarietà.
Il governo insiste che i contratti a tempo indeterminato sono aumentati.
L’idea neo-liberale egemone in passato, secondo la quale con più precarietà – oggi la chiamiamo flessibilità – sarebbero screditate occupazione e produttività, è stata smentita. Ormai c’è una letteratura ampia su questo, i dati ci dicono che e avvenuto esattamente il contrario. La precarizzazione del lavoro coincide con un blocco della crescita della produttività, che rimane il vero problema italiano. Lo riconosce anche Mario Draghi quando dice che il modello su cui si è retta a lungo l’Europa, basato sulla compressione dei salari e quindi della domanda interna, non regge più. Perciò è essenziale invertire la rotta sulla precarietà: è il primo passo per sconfiggere i bassi salari.
Anche lei, come qualche suo collega nel Pd, chiede che faccia autocritica chi ha votato la riforma Renzi?
Credo che oggi occorra guardare avanti, siamo in un’altra stagione. Posso capire che nel 2014 c’era ancora qualcuno che pensava che questa ricetta potesse funzionare (io non ero tra quelli). Ma adesso parlano le evidenze economiche, si tratta di prendere atto della realtà e di proporre un altro modello che spezzi definitivamente questo nesso tra precarietà, bassi salari e insicurezza del lavoro.
Sul tema della sicurezza, fortemente condiviso, si sarebbe aspettato tante critiche dalla destra?
L’anno scorso i morti per il lavoro sono stati 1.090, stiamo parlando di quasi tre morti al giorno. Ma c’è un pezzo della politica che continua ad andare dietro alla parte più retriva del mondo imprenditoriale, che pensa di poter competere riducendo le garanzie di sicurezza dei lavoratori. Il referendum consente di rendere più rigorose le catene di subappalto, che sono quelle in cui, come ci dicono gli studi, avvengono il 70% sia degli incidenti, sia delle morti sul lavoro.
Sul quesito per la cittadinanza le opposizioni sono compatte.
Anche qui mi sembra incredibile che ci siano resistenze, anche perché gli altri requisiti per avere la cittadinanza rimangono identici. E trovo incredibile che forze che si definiscono liberali e moderate, come FI, siano a favore dello Ius scholae ma sono contro questo referendum, visto che un ciclo scolastico dura al massimo 5 anni.