di Umberto De Giovannangeli
Alfredo D’Attorre, responsabile Università e Ricerca nella Segreteria nazionale del Partito democratico. Il caso Almasri, i silenzi della presidente del Consiglio, gli attacchi alla Corte penale internazionale, lo spionaggio di attivisti e giornalisti. Ombre sulla democrazia?
La democrazia italiana, grazie al cielo, è solida. Purtroppo, c’è un governo in carica che gestisce vicende delicate in maniera pasticciata e irresponsabile, mettendo a rischio non solo la credibilità internazionale del Paese, ma la stessa sicurezza nazionale. Di fronte ad errori evidenti, il governo è incapace di assumersi le sue responsabilità, non tutela né la verità dei fatti né il segreto di Stato ed espone suoi ministri di primo piano a figure imbarazzanti.
La presidente del Consiglio si fa vanto di essere stata l’unica leader europea presente all’Inauguration Day di Donald Trump. C’è chi sostiene che Giorgia Meloni può essere la “facilitatrice” dei rapporti tra Trump e l’Europa.
Non credo che Trump cerchi facilitatori dei rapporti con l’Europa, cerca semmai alleati pronti ad assecondare i suoi disegni. Né credo che Francia e Germania siano pronte a delegare a Giorgia Meloni la gestione dei rapporti con gli Stati Uniti. Al di là del chiacchiericcio politico interno, mi sembra che la Presidente del Consiglio, che aveva lavorato molto ad accreditarsi con l’amministrazione democratica di Biden e con la sua linea di politica estera, non abbia ancora messo a fuoco come prendere le misure a Trump, al di là delle dichiarazioni di vicinanza e della sbandierata amicizia con Musk.
Dipenderà dal governo che sarà possibile dopo il voto. Per la radicalità delle scelte a cui la Germania e l’Europa sono chiamate, potrebbe essere auspicabile un governo che veda la corresponsabilità di cristiano-democratici e socialdemocratici. Una volta lo si sarebbe chiamato un governo di Groβe Koalition: oggi le due forze insieme non raggiungono il 50% nei sondaggi e avrebbero la maggioranza dei seggi solo per effetto della soglia di sbarramento. Già questo basta a dare l’idea dello sconvolgimento del panorama politico tedesco. In particolare, le forze progressiste dovranno interrogarsi su quanto la guerra in Ucraina, le sue conseguenze economiche e l’assenza di qualsiasi iniziativa diplomatica della Germania abbiano inciso nel determinare l’impopolarità del governo uscente. Dalla Germania credo verrà un messaggio più generale: attestarsi su una linea che considera inevitabile un massiccio riarmo e un innalzamento dello scontro geopolitico con le potenze extra-occidentali, a partire dalla Cina, è insostenibile per forze che dovrebbero sostenere la priorità della redistribuzione sociale, della transizione ecologica e della coesistenza pacifica.
La Presidenza Trump può essere un’occasione di rilancio per l’Unione europea?
Siamo arrivati a un punto in cui non bastano più gli slogan e i luoghi comuni. Di quale Europa stiamo parlando? Di quella a 27, destinata ulteriormente ad allargarsi, che già oggi comprende i Paesi Baltici, la Polonia, i Paesi dell’Est? Ci sembra realistico che da questa Europa possa sorgere un soggetto politico a tutto tondo, fondato su una condivisa identificazione dei propri interessi e dei propri obiettivi? È questo l’ambito nel quale può maturare una svolta in senso federale del processo di integrazione? A me pare del tutto irrealistico. La divergenza di interessi, visioni, memorie storiche è troppo profonda perché questo possa avvenire in tempi ragionevoli. L’unico spiraglio è che il nucleo dei Paesi fondatori, a partire dai tre principali Stati europei – Germania, Francia e Italia – decida di accelerare un progetto di cooperazione rafforzata, aperto a chi condivide l’obiettivo di una maggiore autonomia politica ed economica europea. Qui c’è un punto cruciale: non si può partire dall’autonomia militare e dall’aumento delle spese in armamenti se non si definisce prima qual è il soggetto e il progetto politico che ha bisogno dello strumento militare.
Come valuta la proposta di Ursula von der Leyen di escludere le spese militari dal Patto di Stabilità?
Personalmente la valuto negativamente. Lasciare che la parentesi della pandemia si chiuda e che l’Europa torni alle vecchie regole con la sola eccezione delle spese militari mi pare una scelta inaccettabile. Peraltro, in questo modo il riarmo avverrebbe su base nazionale. In un momento in cui perfino Trump, che pure chiede ai Paesi europei di contribuire di più ai costi della NATO, accenna alla necessità di ridurre le spese militari su scala globale. All’Europa oggi non manca la potenza militare, manca una chiara e comune identificazione dei propri interessi fondamentali, del proprio posto nel mondo, della funzione che essa vuole svolgere nel nuovo scenario post-globalizzazione. La spesa militare cumulata dei Paesi Ue è già oggi superiore a quella di qualsiasi altra potenza globale, con l’eccezione degli Stati Uniti.
Cosa dovrebbe fare l’Unione europea per evitare l’esclusione dai negoziati per la pace in Ucraina?
Anche qui dobbiamo parlarci chiaro. Se l’Unione europea chiede di partecipare ai negoziati con le posizioni della sua commissaria agli Esteri Kallas, dubito che la sua presenza sarà di grande utilità. A questo punto, dopo tutta la colpevole acquiescenza e subalternità degli ultimi anni, i principali Paesi europei dovrebbero definire unitariamente una proposta per la pace – cosa che l’attuale Commissione europea non ha fatto e temo non farà – e su quella base chiedere di offrire un contributo costruttivo ai negoziati.
Sul piano politico, come dovrebbero reagire le forze progressiste alla vittoria di Trump?
Dovremmo anzitutto smettere di considerare Trump come una specie di meteorite piovuto chissà da dove e non si sa perché. Trump è la conseguenza di errori drammatici compiuti dai dem americani lungo un arco di tempo piuttosto lungo. Io considero mostruosa la proposta di deportare due milioni di Palestinesi dalla loro terra, ma chi ha consentito per quindici mesi che Gaza diventasse un cumulo di macerie, continuando a rifornire di armi Israele e mettendo il veto a ogni risoluzione ONU contro il governo Netanyahu? Musk appare perfino più inquietante di Trump, ma chi ha permesso ai proprietari dei colossi digitali di accumulare fortune immense, di sottrarsi a ogni regolamentazione e a ogni misura antitrust e di finanziare senza limiti la politica? E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Non sconfiggeremo Trump con la demonizzazione personale, ma solo riconoscendo e affrontando i problemi giganteschi che hanno aperto la strada alla sua affermazione.
Tornando all’Italia e al Pd. I commentatori di politica dipingono i Dem come impegnati h24 a fare e disfare correnti e a discutere se presentarsi uniti o in ordine sparso alle elezioni. Siamo alle solite?
Per due anni Elly Schlein è riuscita insieme a garantire l’unità interna e a riposizionare in modo netto il partito. È stato un piccolo miracolo, che ha portato a risultati elettorali inaspettati. Ora si tratta di costruire il progetto di governo per l’alternativa. La costruzione della coalizione richiederà un tasso di creatività e flessibilità politica molto maggiore che nel passato, data la natura degli interlocutori. In questo senso, il riferimento all’Ulivo è lunare, siamo in un altro mondo, su questo Franceschini ha ragione. Detto questo, la segretaria fa bene a restare concentrata sui temi concreti e a ricercare tutti i punti di condivisione possibili con le forze di opposizione. Questo è l’unico modo per costruire passo dopo passo una base programmatica comune almeno con un nucleo centrale dei soggetti con cui poi si dovrà stringere l’accordo elettorale alle politiche.
È fondata l’accusa a Elly Schlein di non prestare sufficiente attenzione ai moderati?
In un mondo in cui vincono Trump e Milei e in cui si affermano messaggi ideologici sempre più netti, la prevalenza dei cosiddetti moderati è un fenomeno che esiste ancora solo nella testa di qualche commentatore italiano. Ad ogni modo, la segretaria mi pare molto attenta a garantire il pluralismo interno. La mia opinione è che le prossime elezioni le vincerà non chi apparirà più moderato e in linea con un establishment peraltro piuttosto traballante, ma chi riuscirà a recuperare una quota significativa dell’astensionismo. E lì non ci sono i “moderati”, qualsiasi cosa questa espressione voglia dire, ma le periferie, le aree interne, i ceti popolari.
Non vede la necessità di rafforzare il profilo di governo della proposta del Pd?
È il lavoro che caratterizzerà i prossimi due anni. Ora è possibile svilupparlo su basi più solide perché il Pd, che due anni fa sembrava sull’orlo della dissoluzione, è in grado di esercitare il ruolo di perno dell’alternativa. Nonostante i pasticci e l’inadeguatezza di diversi suoi esponenti, la crisi di consenso del governo non si consumerà su questo, ma sull’economia e sulle questioni sociali. Su questo terreno dobbiamo sempre di più concentrare l’attenzione e costruire un progetto credibile, che indichi dove vogliamo mettere le risorse e dove vogliamo prenderle. Le faccio l’esempio del settore che seguo direttamente, quello dell’università e della ricerca. Ora c’è la consapevolezza nel partito che, se vogliamo competere sulla frontiera dell’innovazione e non dei bassi salari, senza un rilancio serio del sistema universitario e della ricerca lo stesso avvenire economico e produttivo del Paese è a rischio. Ma il progetto di riforma del sistema universitario e della ricerca che stiamo definendo necessita di risorse, così come le scelte che indichiamo in materia di sanità, di scuola, di politica industriale. Il lavoro dei prossimi due anni sarà convincere i cittadini che un’altra idea di Italia è possibile e che c’è un progetto economico solido per sostenerla.