di Carlo Dore jr.
Per quanto curioso e insolito possa sembrare, vorrei impostare la mia riflessione su due personaggi: apparentemente lontanissimi tra loro, eppure funzionali al ragionamento che intendo proporre in questa sede. Il primo è un personaggio storico, identificabile in Aurelio Sansoni, il ben noto “giudice giusto” descritto da Calamandrei «come una coscienza tranquillamente fiera», e accusato di essere al servizio di una fazione per il solo fatto di non voler assecondare i desiderata della fazione contraria. L’altro, invece, è un personaggio letterario, ovvero l’altrettanto noto ispettore Javert prodotto dalla penna di Victor Hugo: il poliziotto inflessibile che ammette solo in punto di morte la redenzione di Jean Valjant.
Da dove nasce il riferimento a questi personaggi? Nasce dal rilievo in forza del quale, riprendendo le parole del ministro Carlo Nordio e di alcuni esponenti dell’Unione delle Camere Penali, la separazione delle carriere costituirebbe il nerbo di una riforma liberale, garantista e dunque attuativa del principio del giusto processo cristallizzato nell’articolo 111 della Costituzione: essa da un lato vorrebbe salvaguardare l’equilibrio del “giudice giusto” (emendato dai possibili condizionamenti derivanti dal rapporto di colleganza con il PM), e d’altro lato contribuirebbe a contenere la presunta onnipotenza di quella sorta di ispettore Javert in toga, ricondotto una volta per sempre alla più accettabile dimensione (sempre secondo le parole del ministro Nordio) di «avvocato dell’accusa».
Proprio concentrando l’attenzione su quest’ultimo profilo, dobbiamo però chiederci: davvero le “condizioni di parità” secondo cui, per volontà del Costituente, deve svolgersi il contraddittorio tra le parti impongono, attraverso la separazione delle carriere, di trasformare il PM nell’avvocato dell’accusa? E soprattutto, davvero la presenza di un avvocato dell’accusa costituisce una soluzione “garantista” nella prospettiva del cittadino-imputato? Il tema, rilevantissimo nella sua costruzione, può oggi essere reso oggetto solamente di tre veloci considerazioni, e di un’agra chiosa finale.
La prima considerazione: nell’ordinamento attuale, il PM condivide la stessa missione alta a cui è orientata l’azione del giudice, ovvero la ricerca della verità dei fatti, risultando tenuto, nel momento in cui deve scegliere se formulare l’imputazione o domandare il proscioglimento, a considerare non solo le prove a carico ma anche quelle a discarico. Di più: per certi versi, il PM è il primo giudice che il cittadino incontra nell’impervia strada del procedimento penale. L’indagato deve dunque augurarsi che il magistrato inquirente abbia la capacità di giudicare: di essere un “giudice giusto” riprendendo il pensiero di Calamandrei. In questo senso, forse, un legislatore attento alle esigenze del sistema-giustizia, lungi dal mettere in atto una rigorosa separazione delle carriere, avrebbe forse messo in atto una soluzione speculare a quella che ispira la riforma, imponendo il preventivo svolgimento della funzione giudicante (meglio se in sede civile) per il magistrato che intende assumere le vesti dell’accusatore.
La seconda: senza voler in alcun modo sminuire il rilievo che la figura del difensore assume nell’economia del processo, l’avvocato persegue per forza di cose un obiettivo diverso da quello a cui risulta orientata l’azione del giudice o del PM: non necessariamente l’accertamento della verità, ma, assai più banalmente, la vittoria della causa, identificabile, nel processo penale, nell’esclusione della responsabilità dell’imputato, anche se colpevole. E in questa prospettiva, se certamente censurabile apparirebbe la condotta di un inquirente volta a ottenere, pur in presenza di prove a discarico, la condanna di un innocente, per contro l’avvocato che riuscisse a far assolvere un cliente della cui reità è financo certo si limiterebbe a svolgere nel migliore dei modi il suo mandato.
La terza: volendo ricorrere a un sillogismo neanche troppo ardito, è possibile ipotizzare che il PM ingessato nella dimensione dell’avvocato dell’accusa dismetterà rapidamente la cultura del giudice per sposare esclusivamente il punto di vista dell’avvocato, impegnato toto corde a difendere le sue tesi nel tentativo di vincere la causa (ovvero, di arrivare alla condanna dell’imputato). Insomma, per una sorta di paradossale eterogenesi dei fini, la separazione delle carriere finirebbe col ridurre gli spazi di intervento del giudice giusto, lasciando maggiore spazio alla figura (assai poco garantista) di quell’onnipotente Javert in toga che il Ministro Nordio dichiara invece di voler neutralizzare.
Resta però spazio per quell’amara conclusione a cui si è in precedenza fatto cenno: fino al tragico epilogo del suicidio nella Senna, il rigoroso ispettore di Victor Hugo trova nel ministro della Sécurité il proprio esclusivo interlocutore. Il PM come super-investigatore che risponde direttamente all’Esecutivo: una prospettiva forse non del tutto sgradita ad alcuni sostenitori della riforma.
Relazione all’assemblea dell’Anm Sardegna in occasione dello sciopero dei magistrati