Scotto: tema cruciale è il divorzio tra democrazia e turbocapitalismo

Umberto De Giovannangeli - L'Unità
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Mario Rossi - La Repubblica

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Intervista a L’Unità

di Umberto De Giovannangeli

Arturo Scotto, capogruppo alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale del Partito democratico. Cosa l’ha colpita di più, anche visivamente, del giorno dell’insediamento di Donald Trump?

Il fotogramma del giuramento di Trump alla Casa Bianca ci racconta chi siede sulla tolda di comando: il capo di Google, il capo di Meta, il capo di X e quello di Amazon. Tutti lì in prima fila. A testimoniare quali siano i valori concreti che animano questa nuova presidenza. Tant’è che il primo atto di Trump è stato quello di sospendere la minimun tax al 15 per cento sulle Big Tech: un avviso chiaro alle velleità europee di far pagare qualcosa anche a chi ha accumulato ricchezze inaudite. In più c’è un fatto politico inequivocabile. I patron delle Big Tech avevano votato in gran parte Biden nel 2020.

E ora erano in prima fila all’insediamento del tycoon…

Con questo voto si è consumata una scissione tra i ceti innovativi della Silicon Valley e i democratici. Tutti alla corte del nuovo capo. Qualcuno anche con ruoli di responsabilità di rilievo nell’amministrazione come Elon Musk. Magari pagata a suon di milioni di dollari. Forse l’illusione è stata di chi ha pensato negli anni che questi miliardari si ponessero il tema della salvaguardia della democrazia. Non è così. Il divorzio tra la democrazia e il turbocapitalismo è il fatto cruciale del nostro tempo. Non vogliono regole, non vogliono concorrenza, non vogliono i sindacati, non vogliono norme che limitino il riscaldamento climatico. Producono beni prevalentemente immateriali, sono padroni di piattaforme che plasmano il senso comune. Il sodalizio tra questo capitalismo futurista e rapporti sociali arcaici – che mettono nel mirino innanzitutto la libertà di autodeterminazione delle donne – descrive la natura del blocco sociale che attorno a Trump si è coagulato. Qualcosa con cui fare i conti. Gli oligarchi sono sempre stati nel palazzo, ora però sono direttamente entrati nello studio ovale. Hanno piantato le tende e promettono di non lasciarlo più.

L’Unità, in un titolo di prima pagina, ha scritto che Trump ha demolito il tabù dell’America democratica…

Non ho mai creduto che la democrazia americana fosse un modello per noi europei. Certo, nessuno di noi ha mai smesso di emozionarsi davanti a un film come Tutti gli uomini del Presidente: la religione della libertà assoluta della stampa davanti alla prepotenza del potere. Eppure, abbiamo assistito – senza che si aprisse un vero dibattito – alla rottura di questo tabù proprio con l’ordine di Jeff Bezos, patron del Washington Post oltre che di Amazon, che per la prima volta ha ordinato di rinunciare all’endorsement tradizionale per i democratici. Non ci rendiamo ancora conto che stiamo assistendo alla affermazione definitiva di una “superclass” – come scriveva qualche anno fa David Rothkopf – che da élite transazionale sposa il ritorno allo stato nazione trasformandolo in un fortino autoritario. L’accusa di “wokismo” che la destra ha sempre agitato in maniera strumentale contro tutto quello che veniva dai campus della California è simboleggiata dall’autocritica in puro stile staliniano diZuckerberg che annuncia di eliminare ogni filtro da Facebook e Instagram in nome di una presunta libertà di parola senza confini. Nemmeno quella xenofoba. Musk insegna: liberare la parola – anche quella più sporca, più ignobile, più melmosa – significa deresponsabilizzare le élite da qualsiasi funzione pedagogica nei confronti del popolo. Tant’è che invita i giovani a mollare l’università perché non si impara niente della vita. Un messaggio semplice: la concessione del rutto libero per i molti rappresenta il salvavita del potere per i pochi. Dobbiamo fare i conti con una crisi delle democrazie liberali che non risolviamo ritornando nel rifugio di quello che c’era prima. Anche perché c’è poco da difendere. In un trentennio le diseguaglianze sono cresciute ovunque – proprio nei sistemi politici che noi difendiamo – e la bestia della finanziarizzazione dell’economia non ha trovato nessun ostacolo sulla sua strada. Forse solo le costituzioni nate dalla resistenza al nazifascismo: tant’è che diventano l’oggetto principale da picconare. La democrazia liberale va in crisi per questo: perché non riesce più a garantire salari decenti, sanità e scuola per tutti, crescita sociale intergenerazionale. E quindi anche i diritti di libertà entrano in crisi, vengono messi in discussione. Perché se tutto si riduce alla difesa del libero mercato, appare più efficiente e rassicurante la mano ferma delle autocrazie. Che diventano attrattive anche per le giovani generazioni. O rilanci la dimensione sociale della democrazia e quindi un’idea di società, dove è chiaro chi difendi e quale patrimonio ideale e simbolico vuoi affermare in futuro, oppure la vittoria della destra – che è globale – diventa permanente.

Trump ripete che con lui alla guida degli Stati Uniti non ci saranno più guerre.

Non ho mai creduto al pacifismo di Trump. Nulla mi toglie dalla testa che il riferimento alla coesistenza pacifica sia dentro un’idea di ripristino imperiale delle sfere di influenza. D’altra parte, i primi atti ci parlano dell’uscita da organismi multilaterali come l’Oms e la rottura degli accordi sul clima di Parigi. Indebolire tutti gli organismi sovranazionali vuol dire preparare la strada alla guerra. Aggiungo inoltre l’attacco esplicito alla Cpi e l’eliminazione delle sanzioni ai coloni estremisti in Israele. Di che cosa stiamo parlando? Sposta solo i suoi interessi geopolitici sul Pacifico e chiama quegli “scrocconi” degli europei alle loro responsabilità. Si paghino per fatti loro la sicurezza, magari continuando a comprare armi americane e i satelliti di Musk.

E sulla tregua a Gaza?

Quella tregua arriva tardi e Netanyahu ha scelto temporaneamente di sospendere le ostilità perché considerava più forte per la sua tenuta istituzionale lo scudo di Trump. Nel frattempo, sta aprendo il fronte in Cisgiordania per tenere agganciati i suoi ministri dell’estrema destra. E glielo lasciano fare. Qui emerge in maniera tragica la responsabilità storica di Biden e dei democratici: potevano fermarla prima, bastava non dare più le armi. Non lo hanno fatto e dunque hanno sulla coscienza questa strage. E oggi gli appelli finali prima di lasciare la Casa Bianca alla necessità di una soluzione a due Stati mettono rabbia e suscitano sconcerto. Dell’Europa meglio non parlarne. Ad eccezione della Spagna di Sanchez, nessuno è pervenuto. Al contrario, i governi tedeschi, francesi e ovviamente italiani hanno assecondato la saldatura tra estrema destra israeliana ed estrema destra europea che aiuterà ulteriormente l’ascesa al potere di quest’ultima. A cui viene condonato persino l’ignobile passato antisemita in nome della difesa di questo Governo di Israele. Una vergogna.

L’altro fronte di guerra è quello dell’Ucraina.

Questa guerra terribile scatenata da Putin si fa nel cuore dell’Europa ma sarà chiusa dai non europei. Trump alla fine si siederà al tavolo e la soluzione avrà una caratteristica coreana. Tireranno una riga, nessuno riconoscerà quei confini riscritti dalla guerra, i rapporti tra Russia ed Europa saranno freddi e instabili per anni. Non mi interessa più invocare un ruolo assertivo dell’Ue. Abbiamo una classe dirigente continentale che ha rinunciato – scegliendolo – di esercitare alcuna funzione, di seguire acriticamente un atlantismo a cui non credevano più nemmeno gli americani. Lasciano allibite le dichiarazioni della Commissaria europea agli Esteri che dice che bisogna prepararsi alla guerra. Una irresponsabile inadeguata al ruolo che ricopre.

La presidente del Consiglio è stata l’unica leader europea presente all’Inauguration Day. Un vanto?

Fa bene Elly Schlein a sottolineare quanto il neotrumpismo della Meloni metta a rischio la sovranità del paese. Lo vediamo su Space X, ma persino la postura non è indifferente. Da quando ha vinto il tycoon i toni della destra si sono incredibilmente alzati anche in Italia. Si può dire qualsiasi balla perché in America ha funzionato bene. Non c’è una centralità dell’Italia sullo scacchiere mondiale, c’è solo il tentativo di stabilire un canale bilaterale per salvare quel poco dell’economia del nostro paese davanti alla pericolosità dei dazi. La solidarietà europea è saltata in aria, grazie all’evanescenza della Commissione e alla crisi verticale dell’asse franco-tedesco. Ma chiunque – persino la Meloni – mi pare sia perfettamente consapevole che non si va lontano così. Scommette sul si salvi chi può. Non ha mai creduto nel progetto europeista e ora ha dall’altra parte dell’Atlantico un alleato che la vuole distruggere. Il problema è che questa costruzione dell’Ue non si salva se non la smonti e la rimonti daccapo. E lo può fare solo la sinistra se si reintesta la questione sociale. Che non vuol dire un programma, ma innanzitutto una direzione di marcia ideale. Che chiuda con l’illusione tecnocratica.

A proposito dei disastri “mediterranei” collezionati dal governo in carica. È esploso il “caso Almasri”. L’Unità ha titolato a tutta pagina: “Italia sotto ricatto. Governi e ministri agli ordini dei tagliagole libici…”.

Abbiamo chiesto tutte le opposizioni insieme che Meloni venga in aula a spiegare cosa è accaduto con la scarcerazione e il rinvio in Libia del criminale di guerra Najeem Osema Almasri Habish. Una vicenda opaca come ha detto Schlein. Qui ci sono due temi molto gravi: da un lato chi dice di fare la lotta ai trafficanti li scarcera e li riaccompagna a casa con un aereo dei servizi, dall’altro si viene meno al rispetto di un mandato di cattura della Corte penale internazionale a cui noi siamo vincolati per aver sottoscritto la carta di Roma. Perché accade questo? Forse qualcuno sta ricattando il governo? Parliamo di un torturatore in piena regola. Non ci si può girare dall’altra parte.

Venendo alle questioni interne. Interne all’Italia e interne al Pd. Una narrazione che va per la maggiore racconta di una sinistra ripiegata su se stessa, sulla difensiva, politicamente innocua.

Io difendo questi due anni di segreteria Schlein. Non solo perché il Pd è tornato a crescere. Ma soprattutto perché stiamo rimettendo le mani nelle questioni reali: innanzitutto la distribuzione ineguale della ricchezza che frena lo sviluppo, trasforma il lavoro in precarietà permanente, uccide l’ecosistema, piega le libertà civili. Ho rispetto per il dibattito del centro politico, sociale e culturale. Spero che trovino una strada. Ma credo che oggi l’emergenza stia nella crisi delle democrazie ammalate di diseguaglianza. Da questa crisi puoi uscire con la paura e l’egoismo o con la speranza e la cooperazione. È su questo che si vince o si perde un’elezione.

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Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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