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Non esiste una sinistra che non abbia per politica la pace

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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La pace si fa con la deterrenza, non seduti sul divano. In parole povere, per Meloni i pacifisti sono soltanto dei chiacchieroni.

La tesi di fondo è una: prepariamoci a un’economia di guerra. Ormai non più un’ipotesi scolastica, ma un postulato indiscutibile dentro il dibattito di gran parte delle cancellerie europee. Da ultimo il presidente polacco Donald Tusk, che non pare si differenzi molto su questo punto dai suoi predecessori.

La guerra voluta da Putin in Ucraina ha cancellato dalle mappe la parola diplomazia, ha intimidito qualsiasi tentativo di rimettere la politica al centro della scena, ha riattivato la corsa al riarmo. Una conseguenza apparentemente inevitabile. Dunque, dobbiamo difenderci perché altrimenti Putin sfonda le linee dell’Occidente. Il sottinteso è: l’Europa non può non rispondere che così al nuovo disordine mondiale. Armandosi. Non più potenza politica, ma potenza militare tra altre potenze militari.

Come se gli eserciti non fossero un’articolazione della politica, che non pare regni tra Parigi, Berlino e Varsavia. Per non parlare dell’Italia, non pervenuta.

Pazienza se dopo la pandemia avevamo detto che la priorità era rianimare il modello sociale europeo e costruire sistemi di welfare più moderni e inclusivi. La storia può fare passi indietro, basta guardare i programmi di popolari e liberali per le elezioni europee. In cima, il bisogno di vincere la guerra. Come se si potesse vincere una guerra contro una potenza nucleare, qualsiasi essa sia.

Non ha insegnato nulla evidentemente la vittoria agli Oscar del film su Oppenheimer. Le armi di distruzione di massa possono scappare di mano, perché se costruisci una bomba prima o poi la usi.

Nella mia vita ho conosciuto migliaia di operatori di pace. La maggioranza concreti, pragmatici e soprattutto soli: sono quelli che i teatri di guerra li frequentano e li attraversano e provano ad alleviare le sofferenze della popolazione civile. Erano a Sarajevo quando la comunità internazionale si era data alla macchia, a Baghdad quando qualcuno voleva esportare la democrazia sui cacciabombardieri, in Siria quando si lasciava Putin radere al suolo intere città, a Gaza e in Cisgiordania dove nemmeno 30000 morti fanno più notizia. I decisori non li vedono, li sopportano a malapena e li considerano anime belle nonché testimoni imbelli di cose più grandi di loro.

Io ho invece l’impressione che la politica abbia scelto di ritirarsi, come è accaduto altre volte nella storia. Putin è quanto di più lontano da me sul piano culturale, etico e politico, ma esiste. È un criminale di guerra e andrà perseguito nei tribunali internazionali. Fatta questa premessa, la sua aggressività può essere contrastata solo con le armi? Possiamo proiettarci davvero in dieci anni di guerra di logoramento della Russia con l’Ucraina fatta a pezzettini, le nostre economie devastate e le nostre società intruppate dentro il mantra di una nuova guerra fredda? Pensiamo davvero che il tema di una nuova Helsinki, di un nuovo trattato di cooperazione e sicurezza tra est e ovest sia una questione che non si riproporrà prima o poi? E che forse resta l’unica strada per parlare con la società civile democratica che in Russia pensa che occorra farla finita con l’autocrazia di Putin? E che sponde non ne ha, perché la logica del conflitto aiuta la blindatura nazionalistica del regime?

Vedo troppi dottor Stranamore in tv che somministrano certezze stilando le liste di buoni e di cattivi. Non solo a destra, purtroppo. Ma non esiste al mondo una sinistra che non consideri la pace una politica. E che agisca in questa direzione con realismo e determinazione.

Non pretendo di avere ragione, ma ho il dovere di dire quello che penso: la guerra non ha mai aperto la strada a svolte progressive. Ha sempre rinfocolato gli spiriti peggiori delle società. Il più uno che ogni giorno alimenta l’escalation non apre la strada a stabilizzazioni, ma soltanto al caos. Nel caos i signori della guerra sguazzano. E se viene detto oggi “non abbiamo diritto di essere stanchi della guerra in Ucraina”, forse – se facciamo politica e non tifoseria – dovremmo indagare le ragioni di questa stanchezza. Vederci solo viltà o opportunismo è miopia pura. Dentro ci sono domande di fondo che attraversano soprattutto le generazioni più giovani. Che non vogliono nuovi muri e nuove sfere di influenza. Che chiedono un messaggio universalistico e rischiano di trovarsi sulla loro strada solo il Papa.

Che vedono che “i governi non governano più la guerra, ma che della guerra si sono fatti solo gli amministratori, i gestori, i fornitori” come disse in un discorso memorabile il Leader socialista Claudio Treves alla Camera nel 1917 nel pieno della grande guerra dopo la disfatta di Caporetto. Quelle parole oggi sembrano attualissime e a qualcuno fischieranno le orecchie.

P.S. So che al momento la mia posizione sulla guerra in Ucraina è largamente minoritaria nel Pd. Voglio sottolineare – come ho già fatto in passato – che la mia non è mai stata una questione di coscienza, ma una scelta profondamente politica. Mi batto perché cambi la linea del Pd, ma coltivo come sempre l’esercizio del dubbio. E penso che anche nelle posizioni di altri amici e compagni del Pd molto diverse dalla mia ci siano ragioni concrete che ho sempre ascoltato senza pregiudizi e con autentico spirito di confronto. La trappola principale della logica della guerra è proprio la polarizzazione. Per questo non capisco la polemica contro Marco Tarquinio. È una voce, una personalità, un intellettuale di grande valore. La sua candidatura aprirebbe il Pd a un mondo che oggi non ci guarda affatto o ci guarda addirittura con sospetto. Mi auguro con tutto il cuore che Tarquinio stia in campo. L’imperativo deve essere allargare, non restringere.

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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