Intervista a L’Unità
di Umberto De Giovannangeli
La posizione del Pd non potrà mai essere quella di chi nega la legittimità di qualsiasi sostegno all’indipendenza dell’Ucraina. Il punto è quale sia la finalità del sostegno militare all’Ucraina. Portare la guerra in territorio russo e mettere in ginocchio il regime di Putin? Oppure difendere quel che è realisticamente possibile del territorio ucraino (dopo i gravi errori di valutazione, sorretti da vari settori dell’Occidente, e le severe perdite della controffensiva della scorsa estate) e costruire un equilibrio di forze funzionale a un negoziato che metta fine alla guerra? Questa seconda posizione è l’unica che declina concretamente il tema della pace. L’altro aspetto decisivo è quello del superamento del “doppio standard”: se le regole basilari del diritto internazionale e umanitario devono essere imposte agli Stati che consideriamo nostri avversari, devono valere a maggior ragione per regimi democratici che sono nostri alleati, come Israele. L’Unione europea deve esercitare un ruolo come soggetto di dialogo e di mediazione. Questo è il ruolo che il nucleo dei Paesi fondatori del progetto europeo può giocare nel mondo nuovo, non certo mettersi a competere con le grandi potenze militari.
Alfredo D’Attorre, responsabile Università nella segreteria nazionale del Partito democratico. L’anomalia italiana, l’unico Paese, almeno fra quelli fondatori dell’Ue, in cui il voto delle Europee viene riportato, misurato sulle beghe interne: chi prende un voto in più tra Pd e M5S o tra Lega e Forza Italia. E l’Europa?
Non mi pare che solo in Italia sia così, basta guardare alla campagna elettorale in corso in Francia e Germania. E, per quanto riguarda il Pd, la competizione per noi è con Fratelli d’Italia, non con il M5S. Peraltro il Pd non ha incertezze né sulla famiglia politica europea di appartenenza né sulle alleanze che propone per il dopo-voto. Mi pare che altri, a partire dalla destra, siano molto più interessati a riportare il dibattito nel cortile domestico. In più, stavolta ci presentiamo alle elezioni con un progetto non semplicemente di difesa dell’Europa che c’è, ma di cambiamento. Questo vale per le regole economiche e di bilancio, come per il governo dell’immigrazione e per la politica estera e di sicurezza.
Le elezioni europee sono le uniche in cui c’è il voto di preferenza. Non c’è il rischio che invece di conquistare il voto del popolo dell’astensione, si consumi tra i candidati in lizza una “guerra delle preferenze”?
Dobbiamo però deciderci, ci lamentiamo delle liste bloccate alle politiche e ora scopriamo i rischi delle preferenze. Per le europee molti Paesi usano le liste bloccate, ma, considerato l’uso che ne hanno fatto i partiti italiani e lo stato della loro democrazia intera, non sono proprio sicuro che sarebbe venuta fuori una delegazione a Bruxelles migliore di quella assicurata dalle preferenze. Per quanto riguarda il Pd, abbiamo approvato all’unanimità in Direzione liste plurali e aperte, che mi pare quasi tutti giudicano molto competitive. Il fatto che la competizione sia aperta e che la segreteria le abbia costruite, a differenza di quanto accade magari in altre forze, senza predeterminare gli eletti lo reputo un fatto positivo. Anche se, a differenza di altri, non credo saranno le preferenze a trainare stavolta il voto per il Pd, sarà largamente prevalente il voto di opinione.
Pace e lavoro sembrano slogan d’altri tempi. Ma una sinistra che cerca di riconnettersi con mondi vitali non dovrebbe ripartire da qui?
Mi pare che siano tutti temi assolutamente centrali della nostra campagna. Sul lavoro la battaglia per il salario minimo, contro la precarietà e per la crescita dei salari è ormai il DNA del nuovo Pd. Pensi che fino a qualche tempo fa si diceva che le primarie fossero il DNA del Pd. Ora finalmente anche chi aveva teorizzato l’austerità espansiva, come Giavazzi, riconosce che il lavoro buono è solo quello ben pagato, perché senza lavori ben pagati l’economia ristagna e diminuisce anche la produttività: opinioni eretiche fino a un po’ di tempo fa… Sulla pace il messaggio inizia a essere più chiaro, e non mi riferisco solo alla composizione delle liste.
Non pensa sia troppo timida la posizione del Pd sul tema della pace?
Su questo la posizione del Pd non potrà mai essere quella di chi nega la legittimità di qualsiasi sostegno all’indipendenza dell’Ucraina. Il punto è quale sia la finalità del sostegno militare all’Ucraina. Portare la guerra in territorio russo e mettere in ginocchio il regime di Putin? Oppure difendere quel che è realisticamente possibile del territorio ucraino (dopo i gravi errori di valutazione, sorretti da vari settori dell’Occidente, e le severe perdite della controffensiva della scorsa estate) e costruire un equilibrio di forze funzionale a un negoziato che metta fine alla guerra? Questa seconda posizione è l’unica che declina concretamente il tema della pace. L’altro aspetto decisivo è quello del superamento del “doppio standard”: se le regole basilari del diritto internazionale e del diritto umanitario di guerra devono essere imposte agli Stati e alle organizzazioni che consideriamo nostri avversari, devono valere a maggior ragione per regimi democratici che sono nostri alleati, come Israele. È una condizione minima indispensabile perché i Paesi europei riacquistino agli occhi del mondo un profilo di autonomia e credibilità e perché l’Unione europea possa tornare a esercitare un ruolo come soggetto di dialogo e di mediazione. Questo è il ruolo che il nucleo dei Paesi fondatori del progetto europeo può giocare nel mondo nuovo, non certo mettersi a competere con le grandi potenze militari del pianeta sul piano dell’hard power, sfida già persa in partenza per ragioni storiche, culturali e ormai anche demografiche. Il tentativo di spingere l’Europa verso un’economia di guerra produrrebbe solo disastri politici e sociali.
Tra gli analisti politici, uno per tutti Stefano Folli, va forte l’idea che il futuro del Pd modello Schlein è a sinistra, in alleanza-competizione con i 5Stelle di Conte e con l’Alleanza Verdi Sinistra di Fratoianni e Bonelli. E questa la prospettiva del dopo-europee?
Che il futuro del Pd sia a sinistra non mi pare un contributo analitico straordinariamente originale: dove dovrebbe stare? Dopo le elezioni europee ci sarà un’accelerazione dei processi politici e il tema della costruzione dell’alternativa alla destra diventerà stringente per tutti. Anche perché sono convinto che l’elettorato premierà chi è apparso più coerente e convinto in questa direzione. Vedrà che i risultati del 9 giugno sera saranno una sveglia per tutti.
Come valuta le oscillazioni della premier Meloni a proposito del significato del referendum costituzionale?
Da un po’ di tempo penso che la Meloni abbia capito la trappola nella quale si è infilata e proverà a evitare la celebrazione del referendum costituzionale prima delle politiche, o rinviando il referendum o anticipando le elezioni. Tre leggi di bilancio, di qui alla conclusione naturale della legislatura, rischiano di essere una via crucis per il suo governo e il suo consenso, a maggior ragione dopo le nuove regole fiscali che lei ha approvato in Europa. Con chi se la prenderà stavolta? L’austerità l’ha votata lei stavolta. Detto questo, è tristissimo che la Costituzione sia considerata un bene strumentale e secondario rispetto alle convenienze elettorali della destra. Ma, d’altra parte, uno dei pochi obiettivi comprensibili del ridicolo premierato è quello di segnare un punto di discontinuità rispetto all’impianto di fondo della Costituzione repubblicana del 1948, che questa destra continua a vivere con un misto di estraneità e fastidio.
A proposito di scelte che fanno discutere: quella di Elly Schlein di firmare per il referendum della Cgil contro il Jobs Act.
Si possono avere giudizi diversi sulla tempistica e sulle possibilità di successo dell’iniziativa della Cgil, ma c’è davvero qualcuno che pensa che, nel momento in cui si riapre una discussione sulla precarizzazione del lavoro, Elly Schlein potesse collocare il Pd a metà del guado o a difesa di scelte che hanno lacerato il rapporto con i nostri mondi naturali di riferimento? Chi ha qualche dubbio può comunque farsi un giro nei circoli o nelle iniziative di campagna elettorale e constatare la naturalezza e la convinzione con cui la stragrande maggioranza della nostra gente sta sottoscrivendo i quesiti referendari. Peraltro, di superamento del Jobs Act si parla già nel programma elettorale con cui il Pd si è presentato alle elezioni politiche del 2022, con Letta segretario.
Rischia di aprirsi una fase di turbolenze interne nel Pd dopo le europee?
Credo di no. Sono convinto che le elezioni andranno bene e il nuovo corso si consoliderà. Bisognerà dare una forma più ordinata e produttiva al nostro pluralismo interno, più legata a grandi discriminanti politico-culturali, non certo cancellarlo. E occorrerà lavorare sia alla riforma organizzativa del partito sia al rafforzamento della sua identità.
Non crede che su troppi temi la posizione del Pd sia ancora indefinita?
Molto meno che in passato. Fino a qualche tempo fa, la risposta standard di un dirigente del Pd alla domanda sul perché bisognasse votare il partito era che bisognava fermare il «populismo» e il «sovranismo», qualunque cosa volessero dire questi termini passepartout. A me ricordavano la vecchia battuta di Totò e Peppino: «E ho detto tutto!». Forse in alcuni c’era perfino una resistenza a usare ancora i termini destra e sinistra, considerati ormai antiquati. Oggi fortunatamente i candidati del Pd parlano di sanità pubblica, di salario minimo, di piano-casa, di diritto allo studio. La segretaria mi sembra molto convinta anche ad aprire una grande battaglia politica per la difesa dell’istruzione e dell’università pubblica, contro una destra che nel campo del sapere come in quello della salute ha in testa una sola cosa: dequalificare il pubblico e spalancare le porte al privato. C’è un filo rosso che unisce la loro passione per le cliniche private a quella per le università telematiche: apertura a logiche di profitto in settori in cui va invece difeso l’universalismo dei servizi pubblici fondamentali.
L’Università torna sulle pagine dei giornali per le manifestazioni pro-Palestina.
La gran parte di queste mobilitazioni si mantiene nell’ambito della non-violenza e non sfocia in pratiche di intolleranza, che, quando si presentano, vanno sempre contrastate. Le poche frange che compiono atti del genere fanno peraltro il gioco di quei settori della destra che puntano esplicitamente alla militarizzazione degli atenei. Dobbiamo invece guardare con speranza al fatto che, in Italia e altrove, una parte crescente delle giovani generazioni torna a interessarsi delle grandi questioni del mondo e a chiedere ai rispettivi Paesi coerenza nella difesa dei diritti umani e del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Sono i giovani che in occidente manifestano in modo non violento per il diritto dei palestinesi a vivere in pace e in autonomia in un proprio Stato, accanto a quello di Israele, a difendere il meglio della tradizione occidentale, ben più dell’inazione e della viltà di diversi loro governi.