di Umberto De Giovannangeli
Arturo Scotto, capogruppo alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale del Partito democratico: in Europa lo scontro politico si sta radicalizzando. È “solo” un problema contingente?
Qui dobbiamo chiarirci: c’è un tema che riguarda la tenuta delle società europee, non semplicemente il destino di un governo o di una maggioranza. La destra estrema arriva alle soglie del governo in Francia, in Germania l’Afd vince in Sassonia e Turingia, in Italia governa Meloni: qui non dobbiamo più fare i conti con fenomeni nuovi o emergenti, ma con qualcosa di consolidato che ha origine nella crisi del modello sociale europeo. È una destra di nuovo conio che ha un progetto di società perché si candida a riparare i disastri della destra liberista, presentandosi con la faccia di una destra della protezione. Raccoglie il disagio di una parte di mondo del lavoro che guarda alla transizione ecologica come a un rischio fatale per la stabilità dell’occupazione e per la perdita di potere d’acquisto. Che ha paura dei venti di guerra, ma trova rifugio nel nazionalismo anziché una sponda in un movimento pacifista maturo e capace di avviare una straordinaria mobilitazione per il disarmo. Su queste paure la destra miete consenso, dobbiamo spiegare che fermare la lotta ai cambiamenti climatici significa cambiare il modello di sviluppo, liberare tempo di vita, garantire alle generazioni più giovani un futuro decente. Non può essere un’operazione fatta dall’alto come è accaduto finora. Serve un ecologismo socialmente desiderabile come avrebbe detto Alex Langer. E serve un messaggio che coniughi pace e lavoro. Mai come in questa fase sono sinonimi.
Il “caso tedesco”…
La Germania che arranca, tecnicamente in recessione, con la produzione industriale a picco, con i costi energetici che esplodono, con sacrifici che si annunciano nell’industria dell’auto, a partire da Volkswagen e Audi, desta preoccupazione. Perché quando si destabilizza la prima grande manifattura europea, anche quella italiana viene trascinata a picco. Abbiamo sistemi produttivi che sono strettamente intrecciati: se la Germania piange, l’Italia non ride. A meno che non si pensi che la prospettiva di estrema destra che si apre nell’est della Germania aiuti anche la nostra destra nella costruzione della propria dimensione internazionale. Ma quella prospettiva porta alla distruzione del progetto unitario, non a cambiarlo e dargli un segno sociale.
E la destra che governa l’Italia?
Io non so come facciano a essere così incoscienti. La produzione industriale italiana da 18 mesi è praticamente paralizzata. Riesplode la Cassa integrazione (più 29% rispetto allo scorso anno) soprattutto nell’automotive. A Mirafiori e Pomigliano riprende la cassa a zero ore. Festeggiano dati sul lavoro che sono spinti dal Pnrr – che loro non volevano e che hanno combattuto in sede europea – ma diminuiscono le ore lavorate. Significa che siamo davanti a un’occupazione prevalentemente precaria, soprattutto per giovani e donne. Dove dominano contratti intermittenti, a termine e part-time involontario. D’altra parte, il dato più inquietante è la crescita degli inattivi, ovvero di quelli che non cercano più lavoro. Allo stesso tempo esplode il lavoro autonomo che il governo descrive ottimisticamente come auto impiego. In realtà qui parliamo – lo spiega bene Banca d’Italia – di lavoro parasubordinato a poche ore e pochi euro. Precariato travestito da partite Iva e favorito dal regime forfettario della flat tax che dispensa le imprese dall’assunzione diretta e determina minori entrate fiscali all’erario. Tutta fuffa, insomma. Servirebbe una scossa, invece la ministra Calderone continua a prediligere la proliferazione della deregulation: addirittura con il collegato lavoro elimina il tetto alla somministrazione. Significa che un’azienda può assumere fino al cento per cento di lavoratori non direttamente dipendenti. Dopo la liberalizzazione dei contratti a termine e l’allargamento dei voucher siamo alla trasformazione del mercato del lavoro in un supermarket della precarietà.
Questo è il quadro, che dire allarmante è peccare di ottimismo. Come agisce su questo fronte il governo Meloni?
Siccome non sanno come gestire il disagio sociale fanno quello che la destra fa sempre dalla notte dei tempi. Aumenta le pene. Penso che non ci rendiamo sufficientemente conto della gravità del passaggio da illecito amministrativo a illecito penale dei blocchi stradali. Fino a due anni se è una manifestazione con più persone. Vuol dire colpire il dissenso con il carcere. Pensano davvero di risolvere così le crisi autunnali in un paese dove sono 60 i tavoli di crisi aperti? Ho fatto un esempio in parlamento. I lavoratori della ex Whirlpool di Napoli – vertenza chiusa positivamente grazie a una triangolazione virtuosa tra sindacato, istituzioni locali e nazionali, e un’impresa TeaTek che ha scommesso sulla sfida dell’innovazione ecologica – in tre anni di vertenza hanno bloccato nell’ordine: l’autostrada, il porto turistico e commerciale, l’autostrada, la stazione. Dieci volte. Con la solidarietà della popolazione locale che condivideva quella battaglia per salvare trecentotrenta posti di lavoro e un presidio produttivo nella periferia della città. Negli anni tanti esponenti politici – di destra, di centro e di sinistra – sono andati in fabbrica a solidarizzare con quella lotta giusta. Se fosse in vigore questa norma avrebbero dovuto andarli a trovare in carcere e non in fabbrica. Pensare di gestire il conflitto sociale così ci riporta dritto a Bava Beccaris.
Che autunno sarà, sul piano politico, sociale e parlamentare, quello che bussa alle porte?
Io penso che dobbiamo prepararci a un autunno militante come ha annunciato la nostra segretaria Elly Schlein. La manovra sarà zavorrata dalla necessità di rientrare nei criteri del patto di stabilità firmato da questo governo. Proveranno a ripetere il cuneo fiscale e il taglio dell’aliquota Irpef. Poco altro. Nessun rilancio degli investimenti, nessun segnale sulla scuola pubblica e soprattutto una ulteriore mannaia sulla sanità. Ci vogliono almeno quattro miliardi. Non ci saranno. Noi proponiamo di prenderli dal risibile e ingiusto taglio dell’aliquota Irpef che distribuisce 14 euro in più nelle tasche dei lavoratori e nemmeno tutti. A che serve avere mezzo caffè al giorno se poi devi pagare duecento euro la visita specialistica da un privato perché le liste di attesa spesso sono lunghe trecento giorni? L’altra sfida è il potere di acquisto dei salari. Il cuneo fiscale non incide purtroppo sui redditi reali delle famiglie che si sono contratti anche rispetto al 2023. Lo dice Eurostat, non la Cgil. Bisogna rinnovare i contratti che sono ancora in attesa. Ferrovieri, edili, metalmeccanici e Pubblico impiego. Qui il governo non può fare il gioco delle tre carte. Deve metterci i soldi. E invece dicono che anche quest’anno sarà molto limitato l’investimento sulla Pubblica amministrazione. Niente contratto e addirittura allungamento dell’età pensionabile a 71 anni. Sono degli irresponsabili e dei bugiardi. Si sono presentati come quelli che avrebbero riformato la Fornero e invece fanno l’esatto opposto. Tra l’altro si apprestano a fare ancora cassa sulla rivalutazione delle pensioni esistenti per risparmiare un miliardo per distribuire altre mancette. Servirebbe invece un grande piano per l’occupazione nel pubblico impiego nelle funzioni centrali, negli enti locali, nella sanità, nell’assistenza. Entro il 2030 un milione di persone andranno in pensione nel pubblico impiego. Come facciamo entrare una nuova generazione per salvare il welfare state e rinnovare lo stato? Questo dovrebbe essere l’assillo delle classi dirigenti di una grande potenza economica. E invece questi signori qui si impegnano solo a rimpinguare gli staff dei loro ministeri. E – come si è visto in questo torrida estate – qualche volta gli va pure male e salta qualche testa.
Una battaglia stringente, a cui non rinunciare?
Noi non rinunciamo alla battaglia per il salario minimo. Stiamo raccogliendo le firme per una legge di iniziativa popolare. Si può firmare anche sul sito e nelle feste dell’Unità in giro per la penisola. Lo vogliamo riportare in Parlamento con la forza del consenso popolare. Puntiamo a smuovere la destra anche in questa legislatura perché nonostante i loro trucchetti dilatori non sono riusciti a cancellare il tema dall’agenda politica. Il Forum Ambrosetti ha presentato uno studio sul gender pay gap in cui si dimostra che l’introduzione del salario minimo in Germania ha prodotto una riduzione di dieci punti del differenziale tra salari maschili e salari femminili. In Italia quel differenziale è di 18 punti. Una disfatta morale del nostro capitalismo che continua ad avere una curvatura maschilista e discriminatoria. Oltre che a cullarsi nell’idea che la competizione si fa nella scala bassa della filiera produttiva. Sono le donne che subiscono di più il ricorso al part-time involontario, che donano in media mille ore annue di lavoro gratuito perché il welfare della cura praticamente non esiste, che rinunciano a lavorare perché un figlio significa doversi licenziare. Per questo c’è bisogno di una svolta. Salario minimo, congedi paritari pagati per cinque mesi, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non sono scelte utopistiche: sono piste innovative che l’intera Europa sta esplorando. La democrazia regge in piedi se le diseguaglianze vengono ridotte, altrimenti continueranno a radicarsi sentimenti autoritari. E l’Italia può diventare il laboratorio di questa reazione terribile. Come è stato già esattamente un secolo fa.