di Arturo Scotto
La tregua arriva alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump e dopo mesi di trattative andate in fumo, con il segretario di Stato americano Antony Blinken a fare la spola da Doha a Washington senza raggiungere mai nessun risultato significativo. All’indomani del 7 ottobre, il presidente Biden si recò a Tel Aviv per ribadire la vicinanza a Israele e la condanna unanime agli attentati terroristici di Hamas, ma anche per mettere in guardia Bibi Netanyahu dal compiere gli stessi errori dell’America post 11 settembre. Errori che sono stati puntualmente fatti, con l’amministrazione democratica americana – e con lei la stessa Europa in larghissima parte – che non ha evitato di mostrarsi imbelle se non addirittura complice, avendo deciso di continuare a inviare armi fino all’ultimo minuto utile all’Idf e non avendo imposto – se non in rarissimi momenti – alcun vincolo sugli aiuti umanitari bloccati.
Gaza è stata un inferno per quindici mesi, il luogo su cui si sono scaricate le peggiori nefandezze della storia recente con un numero di bombe senza precedenti e un numero di civili morti in rapporto alla popolazione a oggi incalcolabile, come spiega anche l’autorevole rivista Lancet: siamo ben oltre i 46mila. Non esistono più nei fatti abitazioni, non restano in piedi infrastrutture, i servizi sanitari sono stati distrutti così come le scuole e le attività produttive.
Prima del 7 ottobre il fabbisogno calcolato per rendere la vita un po’ più agevole a Gaza prevedeva l’ingresso di seicento camion umanitari al giorno; in questo anno lunghissimo quando ne entravano 30 appariva una benedizione divina.
Non abbiamo assistito a una guerra convenzionale dunque, ma alla pianificazione di un massacro unilaterale della popolazione civile senza soluzione di continuità, persino nelle ore successive all’annuncio della tregua. Solo ieri ottanta morti. E siccome questo conflitto ha rapidamente assunto una dimensione regionale, si fa un po’ fatica – innanzitutto per la indubbia capacità chirurgica oltre che l’indiscutibile superiorità tecnologica che Israele ha dimostrato in Iran, in Libano, in Siria, in Yemen nel colpire i suoi avversari – ad accettare la tesi secondo cui le vittime civili sono da addebitare esclusivamente al cinismo oggettivo di Hamas che le avrebbe usate come scudi umani negli ospedali piuttosto che nelle abitazioni o nelle scuole. Se riesci ad ammazzare Ismail Hanyeh in un compound a Teheran senza fare vittime collaterali oppure a far saltare centinaia di cercapersone addosso a militanti di Hezbollah con un semplice click, non puoi liquidare stragi continue nei campi profughi come collaterali. Si voleva consumare in qualche modo una vendetta collettiva, anche a costo di subire le critiche delle stesse famiglie degli ostaggi che chiedevano una tregua dall’inizio delle ostilità per arrivare a un rapido scambio di prigionieri.
D’altra parte, all’indomani della mattanza di Hamas, persino il presidente israeliano Herzog, sicuramente non un esponente da annoverare tra i falchi religiosi, era arrivato a sostenere che non esistono civili innocenti a Gaza. Un contributo tombale al processo di disumanizzazione delle vittime di guerra. Quando incontrammo, ormai più di un anno fa, insieme a Roberto Speranza i rappresentanti delle famiglie degli ostaggi al quartier generale di Piazza Da Vinci a Tel Aviv, la critica nei confronti di Netanyahu e della sua gestione della trattativa ci era persino apparsa più radicale di quella della sinistra politica, molto più intruppata nella retorica dell’unità nazionale.
Oggi siamo qui a domandarci, intanto, se la tregua durerà e se non ci saranno intoppi come già dalle prime ore emerge nella dialettica interna al governo israeliano dove i super falchi Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir descrivono come una resa questo evento. Vogliono occupare Gaza, favorire la fuoriuscita dei palestinesi dalla striscia, incrementare il numero di coloni in Cisgiordania. Insomma, chiudere definitivamente la partita.
Non sappiamo quanto la comunità internazionale a guida Trump si occuperà di trasformare la tregua in un progetto di pace. Il miliardario americano ha coltivato sempre una “special relationship” con Nethanyahu, costruita e rafforzata nel tempo, dentro un sodalizio mondiale tra la destra estrema occidentale e la destra estrema ebraica che ha spostato di molto in questi anni l’asse politico del conflitto mediorientale, sbilanciando la tradizionale funzione di mediazione e di equivicinanza dell’Europa nel Mediterraneo fino a praticare – e spesso persino rivendicare – il doppio standard rispetto alla terribile logica della guerra e alla tutela dei diritti umani e degli strumenti sovranazionali nati per difenderli in ogni angolo del globo.
L’Onu liquidata come organizzazione antisemita, l’Unrwa equiparata a una filiazione di Hamas, la Corte Penale Internazionale che ha emesso i mandati di cattura nei confini di Netanyahu, Gallant e Deif da sanzionare e mettere in condizione di non nuocere: questa brutale giravolta nei confronti degli istituti della legalità internazionale segna uno spartiacque terribile in questo primo quarto di secolo. Tornano a farsi sentire i fantasmi del post 11 settembre, che portarono all’illusione di riscrivere il nuovo ordine mondiale fondandolo sulla forza e non sul diritto. E dunque non deve stupire che – nonostante abbia fatto il giro del mondo l’immagine delle file sterminate di camion di aiuti umanitari inviate da tutti i paesi e ong al valico di Rafah – siano state poche le voci dei dirigenti occidentale che hanno chiesto a Israele di aprire quel confine.
Ho visto con i miei occhi – insieme ai colleghi parlamentari della carovana pacifista a Rafah – le incubatrici per bambini e i ventilatori per ospedali accatastati alla Croce rossa egiziana, respinti dal governo israeliano perché considerati materiale pericoloso.
L’Occidente insomma ha vissuto il suo istante lungo e interminabile di perdita del senso di realtà. Sapeva che morivano come mosche e ha lasciato fare, discettando nei salotti televisivi se usare la parola genocidio fosse o meno legittimo. Ho sempre pensato che questo dibattito fosse tanto inadeguato quanto demenziale, perché esclude sempre il punto di vista delle vittime che sono sotto le bombe o che vengono lasciate morire di fame, di freddo e di malattie.
Il nostro eurocentrismo è finito ormai da un pezzo eppure non riusciamo a capacitarcene, a prenderne atto e capire che il mondo è più complicato delle nostre ubbie. Se guardiamo l’evoluzione del mondo con gli occhi della più terribile catastrofe della storia dell’umanità – ovvero l’Olocausto – nulla naturalmente potrà mai più essere considerato genocidio. Ma noi sappiamo che il festival degli orrori non è mai terminato e ha preso strade e forme diverse: Asia, Africa, Balcani, Medio Oriente.
Un mondo che riabilita la “mentalità di guerra” – come ha spiegato il neo segretario generale della NATO Mark Rutte in un recente discorso – può scivolare nell’incubo genocidario persino senza accorgersene, nell’idea che i problemi si risolvono nella comoda dicotomia del bene contro il male, annientando sempre e comunque le verità interne presenti nell’altro da sé ed espellendo la politica – e dunque la possibilità stessa di convivenza – dal proprio orizzonte.
Oggi la palla dovrebbe tornare alla politica per sfruttare la tregua e non considerarla un obiettivo terminale. Perché questa tregua non solo non cancella le cicatrici di Gaza, ma si inserisce in un quadro dove la guerra perde solo un po’ di intensità e di proiezione mediatica. Un palestinese di Nablus resta comunque un cittadino di serie C, senza patria e senza futuro, sospeso tra la promessa di uno stato che non arriva e una condizione economica, sociale, climatica che precipita rovinosamente.
Qui c’è la sfida che dovrebbe essere lanciata: l’accordo rimuove nell’immediato dalla nostra vista l’incubo delle bombe e l’annesso senso di colpa. Non elimina tuttavia l’urgenza di passare dalla tregua alla prospettiva della pace. Che non è un deserto, che non è assenza di guerra, è una prospettiva che si alimenta di solidarietà reale, di investimenti economici permanenti, di relazioni diplomatiche diffuse e non episodiche in alto e in basso, del protagonismo della società civile e della forza della mobilitazione dell’associazionismo e delle giovani generazioni. Ma anche di scelte chiare e senza equivoci: il riconoscimento di uno stato di Palestina che viva in pace e sicurezza accanto a Israele.
Ora, proprio quando appare una possibilità remotissima, con un quadro internazionale ancora più arretrato rispetto all’America di Biden con tutti i suoi errori e le sue vigliaccherie, bisogna rialzare questo vessillo. Ed essere conseguenti. L’Italia e l’Europa siano conseguenti, entrino nell’età adulta.