di Arturo Scotto
Auspicavo fortemente l’ammissione del quesito referendario sull’autonomia differenziata. Avrebbe aperto una contraddizione politica all’interno della maggioranza, soprattutto nel suo elettorato meridionale, che difficilmente si sarebbe rivelata recuperabile. La decisione della Consulta è naturalmente inappellabile e – aggiungo – per tradizione non oggetto di discussione o di polemica. Leggeremo il contenuto della sentenza, ma resta il fatto inequivocabile che il ddl Calderoli è già stato in larga parte smontato dalla Corte stessa non più tardi di due mesi fa. E questo conta: non so a quali avvoltoi il Ministro – collezionista seriale di leggi fatte a pezzettini dalla Corte, vedasi Porcellum – si riferisca, spero non ai giudici e nemmeno all’opposizione che fa il suo mestiere. Più probabilmente si riferisce ai suoi colleghi di governo, Tajani in testa che ha sussurrato l’ipotesi di un ritorno della legge in Parlamento. Insomma, nonostante la Consulta eviti alla Lega le forche caudine del referendum, essa resta ad oggi l’anello debole della destra neotrumpizzata della Meloni, tra i disastri ministeriali di Salvini, il nervosismo dei governatori a fine mandato e una certa insoddisfazione dello zoccolo duro lombardo che ha voltato le spalle al leader.
Non c’è dubbio tuttavia che sull’autonomia differenziata si sarebbe coagulato un fronte ampio attorno al messaggio della difesa dell’indivisibilità del paese e della tutela dei diritti universali a partire da sanità e scuola: un’occasione anche per l’opposizione di costruire attorno a questa battaglia un nucleo di messaggi che avrebbero parlato a ceti molto trasversali che temono il declino del welfare e l’affermarsi di un messaggio diffuso di egoismo sociale che è la cifra principale delle politiche della destra in Italia e non solo.
Restano in piedi invece i referendum sulla cittadinanza e i quattro quesiti sociali promossi dalla Cgil. Voglio soffermarmi su questi ultimi, che incidono in maniera significativa sulla condizione materiale delle persone e delineano un’altra idea di come si tutela il lavoro.
Essi intervengono innanzitutto sull’articolo 18, cancellato col Jobs act da Matteo Renzi, ripristinando il reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa. Reintroducono le causali sui contratti a termine, cancellate dal decreto Poletti sempre al tempo di Renzi, poi ripristinate dal ministro Di Maio e nuovamente eliminate dal cosiddetto decreto Primo Maggio della Meloni. Cambiano la normativa sui licenziamenti individuali nelle Pmi, affidando al giudice la possibilità del reintegro piuttosto che la definizione dell’importo dell’indennizzo. E infine modificano la materia degli appalti, cancellando la norma che esclude la responsabilità solidale delle aziende committenti in caso di appalto e subappalto in caso di infortunio sul luogo di lavoro.
Penso che si tratti di quesiti largamente condivisibili, che trasformano radicalmente una giurisprudenza del lavoro che nel corso degli ultimi anni ha reso i lavoratori più fragili, più precari, più poveri. Non c’è più nessuno che oggi non ponga il tema dell’emergenza del potere d’acquisto dei salari che in Italia sono fermi da trent’anni: siamo certi che non c’entri nulla la ricattabilità del lavoro, compreso il potere di licenziare senza giusta causa e di prolungare i contratti a termine sine die? Chi è precario guadagna di meno, chi ha la spada di Damocle di poter essere licenziato più facilmente sa che potrà contrattare di meno in azienda e finirà per ritenere inutile associarsi sul piano sindacale. Persino la battaglia che stiamo facendo tutti insieme sul salario minimo farebbe fatica a emergere in tutta la sua dirompenza se non venisse accompagnata da una revisione profonda degli istituti del mercato del lavoro che negli anni hanno visto crescere una giungla contrattuale senza precedenti.
Questi referendum provano a invertire una tendenza, a trasformare il dibattito sulla qualità del lavoro in una grande mobilitazione sulla qualità della democrazia nel paese.
Indubbiamente nel corso degli ultimi anni pochi referendum hanno raggiunto il quorum e immagino che molti lanceranno appelli a gonfiare le vele dell’astensionismo. Ma io credo che in ogni caso aprire una discussione e scegliere dove schierarsi sia utile per l’opposizione e anche per il Pd. Elly Schlein ha già firmato i quesiti della Cgil nella primavera dello scorso anno, rivendicando una coerenza con quanto sostenuto in passato all’epoca della battaglia contro il Jobs act. Posizione che condivido molto e che ho pubblicamente sostenuto.
Si aprirà certamente una inevitabile discussione sull’indicazione di voto del Partito democratico. Ho letto l’intervista di un autorevole dirigente del Pd come Alessandro Alfieri che invita a evitare di riaprire vecchie ferite e di concentrarsi sulle cose che uniscono. Penso che abbia ragione a perseguire questo intento nobilissimo che condivido profondamente. Non vorrei tuttavia che, per non riaprire ferite interne, si riaprisse una ferita ben più grossa con un pezzo rilevante di popolo della sinistra che, anche a causa del Jobs Act, ha scelto di divorziare dalla sua rappresentanza politica tradizionale.
Per questo credo che sia giusto discutere, confrontarsi nel merito in maniera rigorosa e poi decidere di schierarsi per il Sì ai referendum sociali così come a quello sulla cittadinanza. Stare a metà non è una linea politica. In quasi due anni di direzione politica di Elly Schlein quelle ferite si sono via via rimarginate anche perché si è rimessa coraggiosamente al centro del discorso pubblico del Pd la questione sociale. E, dunque, una nuova centralità del mondo del lavoro. Non credo sia saggio tornare indietro.