Assomiglia di più a un Social Forum che a un evento di partito. Quattro giorni di seminari, assemblee, panel a Châteauneuf-sur-Isère, in provincia di Valence, che diventa per una volta il centro della politica francese con una copertura giornalistica senza precedenti. Sono qui, a due passi da casa dei miei suoceri dove sono nati Elsa e i miei figli, per capire cosa accade dopo quasi due mesi dalle elezioni e soprattutto quale è lo stato della sinistra francese.
Non esiste un parallelo possibile, per questo animale strano che si chiama La France insoumise, con l’Italia. Il partito fratello sarebbe Potere al popolo. Che tra l’altro è presente, insieme a una delegazione dei comitati per l’acqua pubblica che mi salutano affettuosamente. Sono venuti a colloquio con Gabriel Amard, deputato Insoumise, che parla un perfetto italiano e che è autore di un libro sulle pratiche predatorie di Veolia – la grande multinazionale francese – sui piccoli comuni. L’ho conosciuto tanti anni fa a un congresso nazionale del Partito Socialista francese a Le Mans, accompagnando una delegazione italiana dei Ds con Romano Prodi fresco di vittoria alle primarie del 2005; allora, da sindaco di Viry-Châtillon era considerato già un alfiere della lotta per la ripubblicizzazione dell’acqua.
Sono più di cento gli eventi, il fil rouge è l’intersezionalità delle lotte: sociali, ambientali, antidiscriminatorie, antirazziste, antifasciste, pacifiste. Molti i dibattiti sulla crisi in Medio Oriente – il riconoscimento della Palestina è uno dei punti qualificanti del programma del Nuovo Fronte popolare – ma anche sull’Africa e sulla critica alla storia coloniale francese. Spunta anche un seminario su Gramsci, che un po’ mi riempie di orgoglio e un po’ mi fa pensare su cosa abbiano rappresentato, per tanti militanti all’estero, la storia e le idee della sinistra italiana.
Questo movimento che è La France Insoumise – un cartello di forze civiche, politiche e sociali – non ha uno statuto, non ha un tesseramento se non una piattaforma alla quale sono iscritte quattrocentomila persone, si organizza attraverso i comitati di “azione popolare” sul territorio, continua a riconoscere la forza di un solo leader, un solo rassembleur, nonostante stia emergendo un gruppo dirigente giovane di trentenni-quarantenni uscito dalle migliori università francesi e spinto alla politica da esperienze di mobilitazione locale soprattutto attorno ai temi dell’ambiente.
Mélenchon è un ex socialista, ministro di Jospin, che ha costruito – forse un unicum in Europa – una scissione politicamente ed elettoralmente fortunata. Ha sfiorato per ben due volte il secondo turno alle presidenziali, ha effettuato un sorpasso impossibile sui socialisti dopo i cinque anni difficili e controversi di Hollande, si è imposto come figura del jet set politico-mediatico tanto polarizzante quanto insostituibile. Non si sono mai così avvicinati al governo, trascinando il Nuovo Fronte Popolare, scandendone i tempi di costruzione, rinunciando a molti collegi per tenere dentro socialisti, Verdi e comunisti e nel secondo turno hanno persino rinunciato a 34 candidati per aiutare i macronisti a passare nei ballottaggi.
Qui, alla loro “Università d’Estate”, è il giorno di Lucie Castets, 37 anni, candidata designata a Matignon per il ruolo di Primo Ministro, alta funzionaria francese esperta in lotta alle frodi fiscali, con un solido percorso universitario nella London school of economics e soprattutto nell’Ena, il vivaio della burocrazia che ha tirato su decine e decine di personalità della politica, dell’amministrazione statale, dell’economia. Lo dice lei appena entrata nella sala da quattromila posti – altri duemila e cinquecento sono rimasti fuori e seguono dai maxischermi posizionati attorno al laghetto dove ci sono i tendoni dei dibattiti, gli stand di una miriade di associazioni e l’area ristorazione -: ho sempre deciso di servire la fonction publique, rinunciando a lavorare nella finanza o nelle multinazionali. A lei viene chiesto forse un compito titanico, quello di tenere insieme una sinistra rivitalizzata nell’ultima tornata elettorale improvvisamente voluta da Macron dopo la disfatta delle europee e di convincere il Presidente che rispettare la volontà popolare significa dare il mandato a formare un esecutivo alla coalizione che ha ottenuto più seggi, anche se di minoranza. Aver individuato lei, una personalità fuori dai partiti, senza un’esperienza diretta nella vita politica, se non aver fondato un collettivo per la difesa dei servizi pubblici a Parigi, può dirsi già una scommessa vinta.
In un’estate attraversata dalla sfida olimpica – ivi compresa la “tregua” voluta e imposta da Macron che ha prolungato i tempi della formazione del governo – Castets ha girato in lungo e in largo il paese, visitato fabbriche e mercati, partecipato a eventi degli alleati comunisti e verdi e la settimana prossima sarà a Blois al meeting dei socialisti. Socialisti che si sono rianimati dopo la batosta delle presidenziali – 1,7 per cento con la sindaca di Parigi Anne Hidalgo nel 2022 – e che hanno trovato una leadership che ha ostinatamente lavorato all’unità della sinistra, pur avendo una maggioranza risicata al proprio interno e una figura centrista ma popolare come Glucksmann contraria alla costruzione del Fronte popolare.
Olivier Faure è infatti l’altro vero protagonista di questa esperienza. Indubbiamente meno carismatico di Mélenchon ma molto determinato nel portare il Psf fuori dalla palude macroniana, che è costata elettori, amministratori locali, iscritti. Vale la lezione di Mitterrand che, dopo il Congresso rifondativo di Épinay, con i socialisti al cinque per cento, costruisce un programma di “rottura ideologica” – espressione che torna nelle parole di Lucie Castets – e sposa l’unità con il Pcf di Marchais che all’epoca pesava quattro volte di più. E in pochi anni riprende la testa della sinistra, conquistando l’Eliseo nel 1981.
Il tentativo di dividere la sinistra è esplicito, martellante su tutti i media. La “diabolizzazione” di Mélenchon viene costruita in maniera chirurgica da tutti i commentatori della stampa e delle televisioni. Unica tregua concessa? La settimana in cui i voti della sinistra radicale sono risultati decisivi per eleggere i deputati macronisti ed eliminare la Le Pen. Un minuto dopo è ricominciata la gara a costruire una conventio ad excludendum che ricorda gli anni Cinquanta, maccartismo compreso.
Dopo che Castets insieme ai quattro leader del Nfp (verdi, comunisti, socialisti, insoumises) si è recata due giorni fa all’Eliseo – anche questo non scontato, perché Macron voleva incontrarli separati e senza la Castets a cui non riconosce il ruolo di leader indicata dalla coalizione – è ripartito il fuoco di fila di chi diceva che non era accettabile un governo con ministri di diretta espressione di Mélenchon, e che avrebbe presentato immediatamente una mozione di censura per far saltare un eventuale governo di sinistra. Lo affermavano deputati vicini a Macron, ma anche della destra repubblicana e ovviamente Le Pen. Il leader degli insoumises, con una mossa astuta – la sua abilità tattica è riconosciuta universalmente anche perché forse è l’unico politico che ha attraversato quasi tutte le fasi della Quinta Repubblica- ha detto che è disponibile a non indicare alcun ministro della sua formazione pur di ottenere il via libera al governo Castets. Insomma, Mélenchon smina il campo, mette avanti il programma, toglie le castagne dal fuoco ai socialisti già lacerati da una linea più morbida e accomodante verso Macron e toglie un alibi al Presidente della Repubblica.
Tant’è che Lucie Castets, intervistata in sala dalla capogruppo della sinistra europea Manon Aubry e accompagnata da domande poste anche dal pubblico, ha potuto ribadire con forza che non saranno i giochetti politici dell’Eliseo a dividere la sinistra, che è più ampia dei partiti che la rappresentano e che per lei la bussola resta l’impegno sull’aumento dello Smic (salario minimo) a 1600 euro al mese e il superamento della riforma delle pensioni che ha portato milioni di persone in piazza nei mesi scorsi. Su questo non transige, perché sono proposte volute dalla maggioranza dei francesi: farà i necessari confronti con le forze politiche anche di centro e di destra e rimetterà finalmente di nuovo davanti il Parlamento rispetto allo strapotere dell’Eliseo.
Macron – secondo la Castets – non può essere contemporaneamente presidente della Repubblica, primo Ministro e capo partito. Qui c’è una novità: è entrato in crisi il sistema semipresidenziale francese che appariva garante di stabilità a tutta l’Europa e oggi invece produce lacerazioni, ingovernabilità e spinte autoritarie. Colpisce ad esempio la presenza in uno dei panel di Assa Traore, attivista antirazzista e sorella di un ragazzo della banlieue di origini maliane trucidato a sangue freddo dalla polizia in caserma durante un controllo. È diventata il simbolo della lotta per la riforma della polizia in senso democratico. Per questo la sala scandisce più di una volta una frase controversa che è costata un lungo dibattito a sinistra sul metodo con cui fare leva sull’Eliseo per ottenere l’incarico: “Castets a Matignon, si non Macron destitution!”. Che è un’ipotesi remota ma non impossibile. Sulla destituzione non ci sono i numeri in Parlamento, ma che Macron di fronte a una crisi irrisolvibile innanzitutto per sua responsabilità e con un fronte della piazza sempre più incandescente si possa dimettere e ricandidarsi non sarebbe un colpo di scena ritenuto impossibile dai commentatori. La costituzione prevede che un Presidente non possa avere più di due mandati pieni. Per un secondo mandato non pieno, dunque, sarebbe ricandidabile. Una cosa mai vista, ma che trasmette l’idea di quanto sia profondo il default delle istituzioni francesi.
Domnique De Villepin, già primo ministro francese, celebre per lo straordinario discorso all’Onu dove posizionò la Francia contro la guerra in Iraq nel 2003, esponente storico della destra Repubblicana, ha chiesto a Macron di far governare la sinistra. In un pezzo della borghesia francese il timore di tensioni sociali crescenti porta a dire che forse è il momento di un cambio radicale che metta davanti politiche per la riduzione drastica delle diseguaglianze. Gli anni di Macron sono stati quelli dei gilet gialli, della frattura tra aree interne e metropoli, della crescita del razzismo e della marginalità sociale, di leggi sull’immigrazione draconiane, di sgravi miliardari alle imprese e alle multinazionali, ma anche di una politica estera molto ondivaga che ha fatto perdere peso politico al Paese. Dietro la patina del centrismo del buonsenso e dell’efficientismo neoliberale è cresciuta una rabbia che ha attraversato e cambiato i connotati delle periferie. Ha dato benzina alla Le Pen, ma a sorpresa ha fatto riemergere una sinistra plurale che tutti davano ormai per seppellita dalla storia. Farla governare forse è il miglior antidoto contro il caos.
Non è un caso che alla fine del discorso di Castets dalla platea è partito il coro liberatorio: siamo tutti antifascisti! Scandito in italiano con un accento più spostato sulla i. Perché è l’Italia il pericolo a cui guardano tutti con inquietudine. E che la sinistra ha fermato anche stavolta. Ma non si sa per quanto ancora.