di Arturo Scotto
L’Aja – Non appena mettiamo piede in questo palazzo ipermoderno alla periferia dell’Aja – dopo aver superato controlli molto rigidi e lasciato i telefoni in una sala schermata – il quadro si fa sempre più chiaro: la Corte penale internazionale è sotto attacco. E l’obiettivo è chiuderla.
Come si rottama un tribunale? Semplice: attraverso le sanzioni. A giugno di quest’anno lo ha fatto già il Congresso degli USA attraverso una legge che si appresta a varare un piano di sanzioni ai membri della Corte. Lo ha ribadito il nuovo consigliere per la sicurezza di Donald Trump Michael Waltz, che candidamente ha detto che la Corte va sostanzialmente chiusa. Singolare allineamento con le parole del ventriloquo di Putin, il vicepresidente del Consiglio di Sicurezza russo Dimitri Medvedev, che ha affermato che la carta di Roma – quella firmata nel 1998 da 124 Stati per fondare la Cpi – vale quanto la carta igienica.
Le sanzioni sono l’arma: se colpisci chi la dirige attraverso il blocco dei crediti bancari, delle assicurazioni, dell’informatica – ad esempio i programmi Microsoft – hai nei fatti paralizzato tutte le sue funzioni. I processi vanno a mare, la protezione testimoni a ramengo, gli uffici territoriali – uno in Ucraina, l’altro in Africa – vengono chiusi immediatamente. Obiettivo: trasformare in un paria chi ha mandato in questi anni alla sbarra i principali responsabili dei massacri in Africa – dal Mali al Centrafrica, dal Sudan al Congo – e che oggi emette mandati di cattura contro Putin e Netanyahu.
Non ci devono essere attori indipendenti che fanno arbitrato nella lunga notte della politica, dove la logica della guerra domina e decide chi è buono e chi è cattivo. Siamo nel nuovo ordine di Trump – per la verità largamente anticipato dall’inettitudine e dal cinismo di Biden – dove il diritto internazionale diventa una variabile dipendente dalla legge del più forte.
E dunque una Corte Penale giovane, nata meno di trent’anni fa quando all’orizzonte sembrava dipanarsi l’idea di un mondo dove i conflitti armati erano destinati a diradarsi e la fine della guerra fredda avrebbe lasciato lo spazio alla codificazione di regole universali non dettate dall’ossessione delle sfere di influenza, oggi diventa improvvisamente un ferrovecchio, un fastidio, un’anomalia da cancellare. E soprattuto un luogo nel quale sperimentare il cinico e sempreverde principio del doppio standard.
Gli USA non ci hanno mai creduto, preferiscono i tribunali allestiti ad hoc che di solito interpretano la giurisdizione di chi ha vinto. Lo stesso i russi e gli israeliani e via dicendo. Quelli che detengono il monopolio di un mondo mai così armato come oggi non accettano di sottomettersi al diritto internazionale. Perché un dittatore africano che compie un crimine di guerra non ha lo stesso peso di un premier che – pur eletto democraticamente – si comporta allo stesso modo. Cosa sia la qualità della giustizia lo decidono loro.
Questo valeva per le autocrazie fino a qualche tempo fa, ora pare che il virus abbia infettato anche le democrazie di un Occidente che si è ribellato alle regole che si era autoimposto. Fino al grottesco appello ad assumere una “mentalità di guerra” pronunciato dal nuovo segretario generale della NATO, l’ex primo ministro olandese Mark Rutte. O al modo in cui lo stolido ministro ministro degli Esteri italiano farfuglia davanti ai mandati di cattura e alla loro applicazione, rimuovendo di essere uno dei paesi fondatori nonché quarto contribuente. O l’evanescenza della Commissione europea che davanti al sabotaggio della Corte finirebbe per privare l’Eurozona di un presidio che dà prestigio e funzione al continente.
Dimenticano tutti che la Cpi agisce sulle prove documentate, non sulle pruriginose ambivalenze di qualche capo di governo che magari ha scelto di abituarsi a commerciare in intelligence o in armi. E dunque smontarla significa mettere in naftalina una macchina che ha oltre mille addetti di tutte le nazionalità e religioni, articolazioni in alcuni paesi, indagini e processi in corso.
La Knesset entro la fine dell’anno voterà una legge che vieta qualsiasi forma di collaborazione con la Corte, in linea con l’accusa liquidatoria di antisemitismo verso tutti gli organismi sovranazionali che mettono davanti le regole ai tank o ai droni.
I membri della Corte (il primo vicepresidente Rosario Aitala, la rappresentante dell’ufficio legale delle vittime Paolina Massidda, la portavoce Greta Barbone, i rappresentanti dell’ufficio del Procuratore Fabio Rossi e Matilde Gawronski) che abbiamo incontrato con una delegazione di parlamentari ed europarlamentari di Pd, Avs e Cinque Stelle insieme alle ong impegnate nella cooperazione in Cisgiordania e a Gaza (Arci, Un ponte per, Assopace, Aoi) non danno ovviamente dettagli sulle indagini che hanno portato ai mandati di cattura. Tuttavia, ci informano che il lavoro di ricerca è stato meticoloso nella raccolta delle testimonianze, nell’utilizzo delle nuove tecnologie, nella raccolta dei video pubblicati dai social da entrambe le parti. Il team che ha indagato su Netanyahu, Gallant e Deif ha affrontato l’indagine con cautela e senza condizionamenti esterni, facendo molta attenzione a esporre pubblicamente i passaggi fatti nonostante le difficoltà di accesso sul campo.
La Cpi opera nel mentre la storia si compie, senza agire alcun tipo di deterrenza, anche perché priva di una polizia propria. Sono gli stati che, di fronte ai mandati di cattura, hanno l’obbligo di eseguirli, come spiega il trattato, in un meccanismo di reciprocità che rende la giurisdizione tra singoli Stati e Corte complementari. La Cpi non giudica gli Stati, essendo cosa diversa rispetto alla Corte internazionale di giustizia che agisce – come è stato fatto finora su Israele – mettendo in guardia dal compiere “atti genocidari”. Persegue i singoli perché la responsabilità penale è sempre individuale. Forse è questa la contraddizione da cui vogliono sfuggire gli aspiranti autocrati: essere messi davanti alla loro responsabilità personali, sapere che oltre al giudizio della storia dovranno essere sottoposti anche al giudizio di un tribunale.
La politica – dicono i detrattori – dovrebbe risolvere le controversie, senza dover affidare alle Corti quello che solo la diplomazia può riportare in asse con il buonsenso. Ovvero l’addio alle armi e il primato dell’umanità. Ma il diritto internazionale è uno strumento della politica, un compromesso tra le nazioni per evitare la cronicizzazione della guerra.
Nel momento in cui la politica rifiuta di autolimitarsi, i custodi della legalità internazionale diventano le prime vittime. Assieme a chi la guerra la vive come civile da bombardare, come profugo da alloggiare, come padre, madre, figlio da piangere. A quel punto non resta che tornare alla clava. Bel progresso.