di Umberto De Giovannangeli
Alfredo D’Attorre, responsabile Università e Ricerca nella segreteria nazionale del Partito democratico: Qual è il segnale politico nazionale che viene dal voto in Liguria?
Sono in disaccordo con chi parla di rigore sbagliato a porta vuota per il centrosinistra. Le dimissioni di Toti e la candidatura di Andrea Orlando hanno riaperto la partita in una regione in cui, nell’ultimo decennio, si era consolidato un equilibrio a destra e un sistema di potere piuttosto ramificato. La vittoria era possibile ma nient’affatto scontata, almeno per chi è abituato a ragionare guardando i numeri e la realtà, e non gli umori del momento. La destra ha schierato il candidato più forte che aveva, mentre il patteggiamento di Toti paradossalmente ha avuto l’effetto di rimuovere il tema dell’inchiesta giudiziaria dalla campagna elettorale. Detto questo, il voto ligure consegna alcune indicazioni piuttosto chiare: la destra mostra una tenuta elettorale che l’inconsistenza dell’azione di governo nazionale non ha finora scalfito; il Pd consolida il risultato delle europee, cresce di due punti percentuali rispetto al dato di giugno e di nove punti rispetto alle precedenti regionali, rendendo plausibile la prospettiva di poter diventare il primo partito anche a livello nazionale; la coalizione di centrosinistra sconta l’arretramento delle forze che in questi mesi hanno continuato a giocare sul tasto della distinzione più che su quello dell’unità, come M5S e centristi; infine, il trend dell’affluenza conferma un andamento molto preoccupante, anche in presenza di una competizione molto incerta.
Il voto in Liguria ripropone il tema delle alleanze: non solo elettorali ma come condivisione di programmi, priorità che definiscano un’alternativa credibile al governo delle destre.
Sì, la lezione delle europee era già stata chiara, ma evidentemente c’è stato bisogno di una ripetizione. Per l’elettorato che cerca un’alternativa alla destra, la competizione tra alleati viene capita fino al punto in cui non mette in discussione la possibilità di costruire una coalizione credibile. Il Pd viene premiato anche perché appare come la forza più unitaria. Inoltre, il deflagrare dello scontro tra Conte e Grillo in piena campagna elettorale certo non ha aiutato. Ora è essenziale che i 5S risolvano le loro questioni interne e poi inizino a lavorare senza più incertezze alla costruzione della coalizione progressista. Questo non vuol dire certo diventare la copia sbiadita e subalterna del Pd. Il centrosinistra ha bisogno di un Movimento che riesca a caratterizzarsi in positivo su temi come, ad esempio, l’economia, l’ambiente e la politica estera, ma questo deve avvenire in un quadro di lealtà con gli alleati che finora non sempre c’è stato. O almeno non è stato percepito dagli elettori.
Ha ragione chi dice che senza il veto su Renzi in Liguria si sarebbe vinto?
Non credo che i voti si sommino meccanicamente, specie nel caso di forze fino a pochi giorni schierate su fronti contrapposti rispetto all’amministrazione del capoluogo regionale, guidata dal candidato della destra. Il risultato della lista centrista in Liguria ci dice inoltre che c’è un problema drammatico di credibilità dell’offerta politica in quell’area, da cui non credo affatto che Renzi sia immune, come le europee hanno confermato. La questione di come dare rappresentanza a un’area moderata e liberale alternativa alla destra resta al momento aperta. Renzi e Calenda dovrebbero riflettere sui loro insuccessi con più umiltà, ma la questione non si risolve neppure con i veti preventivi di Conte. Dopo la Liguria mi auguro che questo sia definitivamente chiaro.
C’è una questione leadership che mina alla radice la possibile unità del centrosinistra?
È un tema che appassiona i giornali, ma non vedo quale riscontro possa avere nella realtà. Abbiamo una legge elettorale che non prevede neppure l’indicazione del capo della coalizione e il premierato, grazie al cielo, non passerà. Se la coalizione progressista vincerà le elezioni politiche, il leader del primo partito farà il premier e quello del secondo partito il vicepremier. Come accade in tanti Paesi europei. È tutto molto semplice da questo punto di vista, l’unica cosa meno semplice è vincere le elezioni. Mi concentrerei su quello, lasciando perdere astruserie anni Novanta, legate a un’altra epoca politica e magari alla nostalgia per la nostra giovinezza, tipo le primarie di coalizione, il federatore, il papa straniero… Prima delle europee, immaginando un risultato non brillante del PD, c’erano già all’opera infaticabili strateghi pronti con i loro piani, quelli con i quali abbiamo ottenuto tanti successi in passato… Lo stesso Conte, se ragiona con lucidità, non ha nessun interesse a manovre barocche e all’invenzione di figure terze, ma a rilanciare se stesso come fondatore a pieno titolo della nuova coalizione progressista e come leader che può aspirare a giocarvi un ruolo di primo piano sulla base del risultato del suo partito.
La destra denuncia di essere vittima di dossieraggi e di forze opache che vogliono scalzarla. Cosa c’è di vero?
Mi pare che la prima cosa su cui Meloni e Piantedosi debbano rispondere con urgenza è la vulnerabilità di un asset delicatissimo come la banca dati del Viminale. Sulle questioni della cybersicurezza va fatta piena chiarezza, sia sull’efficienza delle misure che il governo e l’Agenzia dedicata a questo compito hanno fin qui assunto, sia sulla tutela dell’interesse e dell’autonomia nazionale rispetto a imprese e Stati stranieri. Va acceso un faro su questo, perché temo che anche su una questione così importante il “sovranismo patriottico” della Meloni possa celare scelte concrete ben diverse. Per il resto, anche in questa vicenda, come nel caso del Ministero della Cultura, se ci sono complotti, sembrano soprattutto auto-complotti interni della destra.
In questo autunno politicamente molto caldo, un altro fronte scottante è quello della legge di bilancio. Si può dire, prendendo in prestito un vecchio adagio, che Giorgia Meloni si stia dimostrando forte con i deboli e debole con i forti?
Sì, la vicenda della presunta tassa sugli extra-profitti di banche e assicurazioni è emblematica. Non hanno fatto neppure il solletico a chi avrebbe dovuto contribuire in maniera ben diversa che con un semplice anticipo di imposte poi restituito, hanno pure chiesto scusa ai diretti interessati e poi hanno avuto la faccia tosta di vantarsi di una misura del genere.
Le scelte su sanità, enti locali, pubblica amministrazione, scuola e università sono molto pesanti e andranno a incidere su diritti sociali fondamentali della parte più debole della cittadinanza, quella che non può rivolgersi al privato. Il blocco del turnover al 75% è poi un ritorno ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi e di Monti. Se fosse intellettualmente onesta, la Meloni dovrebbe riconoscere di aver cambiato idea sull’austerità. Dopo aver approvato il nuovo Patto di Stabilità e varato questa legge di bilancio, dovrebbe chiedere scusa a Mario Monti, proporgli una carica onorifica nel nuovo corso di Fratelli d’Italia e magari coinvolgere Elsa Fornero in un prossimo rimpasto di governo.
Lei è responsabile Università e Ricerca nella segreteria nazionale del Pd. Ma di università si continua a parlare a poco e male nel dibattito pubblico italiano. C’è una responsabilità anche della sinistra?
Ci sono errori che anche il centrosinistra ha commesso in passato nell’assecondare una narrazione distorta sull’università italiana, che ha portato a riforme come quella Gelmini. Ora siamo al lavoro per contrastare con decisione le scelte sbagliate del governo attuale: taglio del Fondo di finanziamento ordinario, blocco del turnover, precarizzazione della ricerca con il DDL Bernini, deregulation delle università telematiche private con il decreto-Bandecchi alle porte, errato utilizzo dei fondi PNRR per gli studentati. Ma soprattutto per costruire un progetto organico di rilancio di un sistema universitario pubblico e nazionale. La segretaria Schlein ha indicato istruzione e ricerca tra le priorità assolute del nostro progetto per l’alternativa di governo e il 27 novembre sarà all’iniziativa nazionale che terremo a Roma sui temi dell’università e della ricerca.
Tra una settimana si vota negli Stati Uniti. Ci sarà un effetto sulla politica italiana ed europea?
Comunque vada, un effetto ci sarà, perché gli Stati Uniti usciranno più divisi e ripiegati all’interno da questa competizione elettorale, anche nel caso si riuscisse a evitare l’elezione di Trump. Un certo fondamentalismo bellicista e ultra-atlantico sarà ancora più insensato in un contesto in cui i Paesi fondatori del progetto europeo dovranno necessariamente interrogarsi su come recuperare un minimo di autonomia strategica. L’inazione e la subalternità degli ultimi anni mostrano ormai un costo politico ed economico insostenibile per i governi in carica, a partire da Germania e Francia. Ci sarebbe uno spazio notevole in questa fase per un’Italia, se ci fosse un governo dotato dell’autonomia e della visione necessari per occuparlo.
Che giudizio dà della nuova Commissione europea?
Al momento, molto negativo. E il problema non è Fitto, ma l’impianto complessivo della Commissione, a partire dalla scelta di aver affidato le deleghe degli Esteri e della Difesa a due esponenti dei Paesi Baltici. Sulla tentazione di una svolta verso un’economia di guerra e di una sorta di keynesismo militare il Pd deve aprire una discussione molto seria anche all’interno del Pse. In questo contesto economico e geopolitico, la strada di un incremento delle spese militari è insensata e insostenibile. Se lo vogliono, lo facciano Polonia e Paesi baltici. Gli elettorati dei Paesi fondatori dell’Unione europea non vogliono questo e hanno ragione. Il ruolo dell’Europa non può essere quello di competere militarmente con le altre superpotenze, ma quello di tornare a esercitare un ruolo di dialogo, mostrando al mondo non arsenali più potenti, ma il meglio della sua esperienza storica: Stato di diritto e modello sociale. Proprio ciò che la torsione verso un’economia di guerra rischia di travolgere.