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Renzi, niente veti? Però i conti coi fallimenti del passato vanno fatti

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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Forse la notizia vera è che l’intervista di Matteo Renzi cambia poco o nulla. Almeno nella sua lettura della società, nelle idee che propone, negli obiettivi che si prefissa. Viene segnalata come una svolta, ma è sempre lo stesso schema di gioco che lo anima. Come nel 2019 quando dopo il Papeete spalancò le porte al governo giallorosso, spiazzando tutti e sparigliando le carte della politica italiana. Renzi si conferma un grande tattico, animato da un principio di realismo politico indiscutibile.

Tutto bene: non discuto la necessità di un’alleanza larga, di trovare un bandolo per unire anche quello che non si è riuscito a federare in questi ultimi anni. Abbiamo tutti cicatrici addosso, ma non possono essere un ostacolo per sempre. I veti non vanno messi e non vanno nemmeno subiti, come spiega Elly Schlein. L’avversario è una destra di conio nuovo, che mischia il primato del sangue con la retorica patriottica, il liberismo economico con il protezionismo commerciale, la rivolta fiscale con lo Stato etico. Non giriamoci attorno, riunirsi contro questa deriva è un dovere patriottico. Lo è stato in Francia dove le distanze tra la sinistra e il macronismo in questi anni si sono addirittura acuite, lo sarà in Italia quando si andrà a votare.

Renzi da questo punto di vista prova ad anticipare i tempi: certifica la fine del terzo polo ucciso da Calenda (in realtà sarebbe più corretto parlare di concorso in omicidio), individua il centrosinistra come il campo nel quale ri-definirsi (fino a spiegare che il 3,8 di Stati Uniti d’Europa – che non è proprio tutto suo – sarebbe decisivo in almeno trenta collegi), si candida forse in maniera un po’ troppo enfatica come attore protagonista di un centro degasperiano che guarda a sinistra.

Il posizionamento è chiaro, di là impossibile andare, di qua c’è la prospettiva della sopravvivenza.

Per questo fa cadere veti persino su Conte, cosa su cui il suo gemello-rivale Calenda non arriva per il momento, e addirittura garantisce che sosterrà come presidente del consiglio il leader del principale partito della coalizione, chiunque sia. Duttilità e gran pelo sullo stomaco. Eppure, fino a tre giorni fa si appuntava la medaglia al petto di aver fatto cadere Conte e vaticinava dimissioni della Schlein in caso di sconfitta a Firenze. Non era proprio il biglietto da visita migliore per chi praticava e predicava l’unità. Oggi invece dice “togliere i veti e mettere insieme i voti”.

In Francia in qualche modo è accaduto questo. Fronte popolare, macronisti e anche destra gollista hanno votato insieme al secondo turno gli stessi candidati. La sinistra ha mostrato maggiore fedeltà elettorale al “barrage” contro l’estrema destra fino addirittura a sostenere l’autrice della riforma delle pensioni Elisabeth Borne contro cui aveva impostato mezza campagna elettorale. Ha funzionato perché la destra estrema in Francia è ancora con mezzo piede fuori dal circuito istituzionale e dal patto costituzionale nonostante i tentativi di maquillage e di “dediabolisation” che un pezzo dell’establishment francese sta provando a fare in questi mesi.

Qui invece la destra di matrice fascista nelle istituzioni ci sta da trent’anni. Ha espresso ministri, presidenti delle camere, presidenti delle regioni, sindaci e ora anche Palazzo Chigi. Tutti provenienti dal MSI, fratelli di fiamma della Le Pen. Insomma noi abbiamo avuto il Berlusconi sdoganatore, altri no.

Dunque facciamo attenzione: siamo davanti a fenomeni che vanno aggrediti e sconfitti ricorrendo sicuramente alla matematica ma senza dimenticare mai il primato della politica. La matematica ci dice che se nel 2022 terzo polo, centrosinistra e M5S fossero andati insieme la Meloni oggi sarebbe forse ancora all’opposizione. La politica ci dice che la somma non fa sempre il totale, come direbbe Totò.

Va percorsa una strada larga, inclusiva e senza barriere, ma l’alternativa si fonda attraverso un processo, non con un condono tombale su quanto c’era prima. Sennò la storia ti rimbalza addosso alla prima curva. Perché è vero che le alleanze non si fanno con il torcicollo, ma il rapporto tra passato e presente è ineludibile perché le scelte del futuro sono sempre il frutto di un’accumulazione temporale di esperienze, di conflitti, rotture, di prove fallite e di prove riuscite.

Non basta dire siamo tanti, bisogna anche dire in che direzione si va.

Oggi il nuovo corso del Pd e del centrosinistra si trova a combattere su due fronti. La lotta contro una destra che al governo nega il salario minimo, annuncia svolte autoritarie con il premierato, spacca il paese con l’autonomia differenziata, taglia la sanità pubblica, civetta con gli antiabortisti.

Ma l’altro fronte è altrettanto impegnativo: quello di rinnovare un messaggio che si era disperso nei mille rivoli della terza via, di una lettura acritica dei processi di globalizzazione, di una visione assai pro-business e ben poco pro-labour. Che continua a vivere tra i cimeli museali di qualche editorialista reputato e nelle teche da collezione di qualche setta nostalgica, ma che ha prodotto un divorzio con un pezzo di mondo spinto a destra o nelle braccia del populismo.

E dunque costruire dal basso Comitati per l’alternativa che aggreghino, oltre alle forze politiche grandi e piccole, associazioni, organizzazioni non governative, sindacati e singoli cittadini e attivisti è una strada da battere con convinzione.

Nel frattempo fuori il mondo è abbastanza incendiato. Basta guardare la vecchia America e cosa viene giù dalla convention repubblicana del Milwaukee. Ma anche l’Italia non scherza. E forse resta ancora di più il grande malato d’Europa. Ovvero il luogo delle sperimentazioni più spericolate e della frattura sociale più profonda che si traduce nella protesta astensionista.

Il lavoro è precario non perché l’ha portato la cicogna. Ci sono state leggi prima smantellate dalla Corte Costituzionale e poi contestate da lavoratori con quattro milioni di firme per un referendum. Hanno pesato e cambiato in peggio la vita delle persone. Farci i conti, con questi fallimenti, è autentica attitudine riformista; continuare a raccontare un mondo che non è mai esistito è inclinazione ideologica. Buona per una mattinata da trascorrere al mercato delle pulci.

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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