di Carlo Dore jr.
Le dichiarazioni rese dal Ministro Salvini all’indomani della sentenza del Tribunale di Palermo che lo ha prosciolto dall’imputazione di sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio nell’ambito del processo relativo alla vicenda Open Arms (dichiarazioni riassumibili nello slogan: “difendere i confini non è reato”, con annessa citazione del poeta fascista Ezra Pound) impongono un’approfondita riflessione sia sul modo in cui il contenuto delle pronunce dei giudici viene proposto all’opinione pubblica, sia soprattutto sul rapporto (mai del tutto chiarito) tra responsabilità penale e responsabilità politica.
Sotto il primo profilo, non sembra superfluo evidenziare come, a oggi, non sia ancora dato conoscere le motivazioni che hanno indotto il Tribunale palermitano ad assumere la decisione in parola: non sappiamo, fuori dai tecnicismi, perché i giudici sono giunti ad affermare l’insussistenza del fatto oggetto di imputazione. È però possibile sostenere, con ragionevole certezza, che i continui riferimenti, da parte del Ministro Salvini, alla necessità di “proteggere i confini” – considerata riconducibile, non senza un certo grado di approssimazione, al sacro dovere di difendere la Patria richiamato dall’articolo 52 della Carta Fondamentale – appaiono del tutto fuori fuoco, se rapportati all’evolversi della vicenda oggetto del processo.
Nell’estate del 2019, infatti, sulle coste siciliane non era in atto una riedizione dello sbarco in Normandia, né si ravvisava l’incombere di un esercito straniero su una sorta di ideale linea del Piave: c’era solo un’imbarcazione che trasportava un centinaio di profughi in una situazione descritta dal Procuratore di Agrigento come “esplosiva” al termine dell’ennesimo viaggio della speranza; imbarcazione alla quale lo sbarco veniva precluso sulla base di un provvedimento (peraltro sospeso dal TAR del Lazio) figlio di un mero calcolo politico, e come tale volto, in larga misura, a sollecitare i bassi istinti di quella fetta di popolo che ravvisa nell’immigrato un nemico da abbattere al grido: “La pacchia è finita”.
Rilievo, quello appena formulato, che introduce la seconda parte della riflessione proposta in queste righe: l’area del penalmente lecito coincide con quella del politicamente sopportabile?
L’equazione tra responsabilità penale e responsabilità politica viene infatti molto spesso ravvisata sia per differire, da parte dei soggetti istituzionali, la valutazione di certi comportamenti tanto politicamente riprovevoli quanto di dubbia legittimità (“lasciamo lavorare i giudici”, si afferma, con conseguente affidamento al giudice penale del compito, non connaturato all’esercizio della giurisdizione, di selezionare la classe dirigente), sia per descrivere le sentenze di proscioglimento come una sorta di lavacro lustrale in grado di sollevare le istituzioni dal compito di sanzionare, sul piano appunto della responsabilità politica, condotte considerate dai giudici non penalmente rilevanti, e che ciò malgrado costituiscono uno sfregio dei valori al cui perseguimento le istituzioni stesse dovrebbero orientare la loro azione.
Ecco, la sentenza del Tribunale di Palermo paradossalmente conferma l’insussistenza di una simile equazione, e la conseguente configurabilità di situazioni che, sebbene non qualificabili come penalmente illecite, dovrebbero comunque esporre i soggetti in esse coinvolti a una responsabilità sul piano politico e istituzionale. Detta pronuncia infatti non ha ravvisato, a mente dell’articolo 605 del Codice penale, nelle scelte di Matteo Salvini una condotta diretta a privare i profughi della Open Arms della libertà personale (presupposto necessario per integrare il reato di sequestro di persona); nulla però dispone tale pronuncia sulla responsabilità politica ed istituzionale di un Ministro dimostratosi disposto a sacrificare, sull’altare di contingenti logiche elettorali, la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, elevata dalla Costituzione a suo principio fondamentale.
Siffatte responsabilità dovrebbero essere rilevate proprio dalla politica, sulla base di una valutazione differente da quella condotta dal giudice penale; siffatte responsabilità dovrebbero essere rilevate dalla politica, e rimangono ferme anche dinanzi ad una sentenza di proscioglimento. Siffatte responsabilità dovrebbero essere rilevate dalla politica, e il riferimento al “non penalmente rilevante” esprime solo l’incapacità di una classe dirigente di autoriformarsi.