di Umberto De Giovannangeli
Arturo Scotto, capogruppo alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale del Partito democratico. Come leggere la “doppietta” del centrosinistra in Emilia-Romagna e Umbria?
Vince una linea politica, testardamente unitaria, come ripete sempre Schlein, che mette al centro la giustizia sociale e climatica. Vincono due bravi amministratori come De Pascale e Proietti che hanno battuto palmo a palmo le loro regioni a difesa della sanità pubblica. La destra è ancora forte, ma è caduto il mito dell’invincibilità. Nonostante un vento che a livello mondiale soffia forte. La strada è ancora lunga e ci dice che occorre consolidare una coalizione, darle stabilità e continuità, con un programma chiaro e un metodo per stare insieme. In Umbria con Proietti recuperiamo più di venti punti rispetto al 2019, in Liguria – dove per un soffio Orlando non vince con una campagna elettorale bella e partecipata – recuperiamo 15 rispetto al 2020. Il segnale di una rimonta c’è, ma soprattutto è tornata in forme nuove una bipolarizzazione del quadro politico. Chi sta in mezzo o sta sopra non ha spazio elettorale da coltivare. Il Pd diventa primo partito in tutte e tre le regioni con una progressione impressionante: quasi 29% in Liguria, più del 30% in Umbria e il 43% in Emilia-Romagna. Un grande balzo in avanti rispetto alle regionali di 5 anni prima, alle politiche di due anni fa e persino alle europee di giugno scorso. Ha pagato la barra dritta di Elly Schlein: un’identità limpidamente di sinistra, nessuna presunzione di autosufficienza e soprattutto la questione sociale come bussola fondamentale di un anno e mezzo di opposizione. La destra finalmente comincia a pagare qualche prezzo.
Vale a dire?
Meloni qualche domanda se la deve porre. La manovra di bilancio che non risolve nessun problema per gli italiani che lavorano. Non il potere d’acquisto dei salari: dal contratto del pubblico impiego senza recupero integrale dell’inflazione, dal cuneo fiscale rivenduto allo stesso modo per tre anni consecutivi, fino al salario minimo definito addirittura pericoloso da alcuni esponenti del suo partito. Su sanità e scuola continua la spinta verso i privati e la dismissione di diritti universali. In più va aggiunta la figuraccia sull’autonomia differenziata, minacce eversive di Calderoli incluse. Che è un collezionista compulsivo di bocciature della Corte costituzionale. Chi si ricorda il Porcellum? O la devolution? Puntare su chi è recidivo anche per Fratelli d’Italia e Forza Italia non è stata una idea brillante. Questa maggioranza si regge sull’intesa blindata su tre controriforme: autonomia, premierato, divisione delle carriere dei magistrati. Se cade una cadono tutte le altre. Significherebbe la crisi di questa alleanza. Teniamoci pronti.
Si vince ma in un oceano del non voto.
I livelli di astensionismo sono impressionanti. Non dobbiamo mai dimenticare che ormai il gioco della democrazia si pratica solo in una metà del campo. L’altra parte si tira fuori dalla partita, non partecipa, non vota. Siamo davanti a una crisi profonda, di lungo periodo. Che è indubbiamente figlia del tracollo dei partiti organizzati del Novecento, delle cattive leggi elettorali, dell’emergere di una questione morale di tipo nuovo che trasforma la politica in un soprammobile di interessi privati inconfessabili e pervasivi. Ma la tendenza più di fondo risiede nello spostamento sempre più forte nell’ultimo trentennio del potere predistributivo e redistributivo dello Stato verso il mercato. Questo squilibrio ha prodotto uno slittamento dai salari alle rendite nel nostro paese di centinaia di miliardi, ha messo a nudo l’esplosione delle diseguaglianze e l’impotenza della politica. La democrazia non produce più ricchezza diffusa e dunque non allarga la sfera del potere, ma agevola la crescita di oligarchie che concentrano sempre più autorità, soldi, comunicazione. La lezione che viene dall’America ci dice questo: sta venendo avanti una superclasse che pensa addirittura di poter colonizzare Marte per salvare la parte “più pura” della specie umana. Un capitalismo futurista che costruisce senso comune e sigla un’alleanza inedita tra modernizzazione visionaria e rapporti sociali arcaici che mettono in discussione innanzitutto la libertà di autodeterminazione delle donne.
Che autunno ci attende?
Sarà un autunno difficile. La crescita del nostro paese è praticamente pari a zero, nonostante l’ottimismo iniziale. Abbiamo interi settori industriali sottosopra. Un pezzo del capitalismo italiano non contempla più il rischio di impresa e si affida agli ammortizzatori sociali per procedere a ristrutturazioni dolorose. Scarica la propria incapacità di innovare sulla fiscalità generale. Ovvero su pensionati e lavoratori dipendenti, quelli che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo. Dalla moda in Toscana all’elettrodomestico – dove la lotta dei sindacati ha bloccato al momento i licenziamenti e le delocalizzazioni -, fino alla chimica, passando per Stellantis. Si aprono decine di tavoli al ministero dello Sviluppo ma non se ne chiude nemmeno uno. Sull’automotive poi ci troviamo di fronte a un’abdicazione della funzione di governo con la scelta scellerata di tagliare il fondo per la transizione e nessuna volontà di Palazzo Chigi di prendersi direttamente in carico la vertenza. Ma questi signori pensano davvero che possono governare un paese che fa a meno della manifattura? Che importa camerieri ed esporta laureati? Mi ha colpito molto un’assemblea a cui ho partecipato lunedì in Molise sul destino dello stabilimento di Termoli. Si è consumato in quel territorio un tradimento sulla Gigafactory inaccettabile, che rischia di consegnare un’area di crisi complessa a un destino di disoccupazione e spopolamento. Ho sentito con le mie orecchie il ministro dell’Economia dire che il governo non fa le politiche industriali, perché tocca agli imprenditori farlo. Una frase che farebbe rivoltare nella tomba Keynes. Serve invece un patto tra imprese e mondo del lavoro per l’occupazione di qualità. Che spazzi via la moltiplicazione dei contratti precari, che spinga sull’innovazione di processo e di prodotto, che rimoduli i tempi di lavoro davanti alla rivoluzione tecnologica in corso, che agevoli socialmente la transizione ecologica, che scommetta sulla rivalutazione del potere d’acquisto dei salari come volano di giustizia e produttività. Non possiamo rassegnarci a un destino in cui il nostro sistema produttivo competa sulla scala bassa della catena del valore globale.
Tutto questo mentre in America rivince Trump.
La sconfitta dei democratici americani ha sicuramente oggettive ragioni politiche. Ad esempio, il ritardo con cui si è arrivati all’avvicendamento tra Biden e Harris, i pochi mesi di campagna elettorale, la resistenza del presidente uscente a prendere atto dell’impossibilità di proseguire con il mandato in condizioni di salute precarie. Qui gli errori tattici, che hanno influito non poco. Poi indubbiamente ci sono processi che sono più lontani, che interrogano la natura di un paese che ha scelto – ma non da oggi – la strada dell’America First che è una risposta miope al ripiegamento della globalizzazione, ma che comunque è una risposta. Si sono succedute tante analisi sulla crisi dei democratici. Chi incolpa la cultura woke, chi se la prende con la scelta di una candidata donna, chi con l’eccesso di sovraesposizione di Hollywood. Mi sembrano tutte letture contingenti. Credo che il nocciolo della questione stia nella frase di Trump: “sono un povero nato ricco”. Un messaggio potente di immedesimazione con la crisi del ceto medio che in America si sta trascinando quel paese in una guerra civile a bassa intensità. Significa rivolgersi a un frammento grande di società che conta i soldi per fare la spesa, per pagare la rata del mutuo, per mandare i figli all’università. Biden è stato paradossalmente il più grande presidente socialdemocratico da Roosevelt a oggi. Dal punto di vista economico l’Inflaction reduction act è stato il più grande piano di investimenti pubblici dal tempo del New deal. Riportare le produzioni nazionali e spingere la transizione: una scelta giusta. Il problema sono stati i salari mangiati dall’inflazione, le diseguaglianze che sono aumentate, il senso di spaesamento di un pezzo di middle class davanti a guerre infinite. Non esiste spazio per la sinistra se la crescita non si accompagna alla riduzione delle ingiustizie sociali e, aggiungo, alla lotta per la pace. Aver lasciato a Trump il vantaggio politico di presentarsi come l’alfiere di una nuova stagione di coesistenza pacifica nel tempo di due guerre è stato un errore. I democratici e Biden in particolare non hanno messo in campo alcuna iniziativa per evitare l’escalation progressiva in Ucraina davanti all’aggressione di Putin e non hanno mosso un dito per fermare la mattanza di Gaza. Hanno pagato un prezzo enorme sia sul terreno del voto generazionale che di quello comunitario. Ma soprattutto un prezzo etico: la percezione di alimentare un doppio standard è stata palese, sfacciata, clamorosa. Non puoi dire a Netanyahu di contribuire al cessate il fuoco a Gaza e poi continuare a riempirlo di armi.
Tra le tragedie in atto c’è quella di Gaza.
Trump sulla Palestina farà peggio di Biden. Lo indicano già le prime scelte. In continuità con quello che ha fatto già nel primo mandato: stracciò l’accordo sul nucleare siglato da Obama e dall’Ue, autorizzò nuovi insediamenti coloniali, trasferì l’ambasciata a Gerusalemme, avviò i patti di Abramo sulla testa dei palestinesi. Alla barzelletta di un Trump pacifista non crede nessuno. Lui ha una visione della politica estera come una spartizione tra aree di influenza. Per questo va d’accordo con Putin e Netanyahu. Dopodiché questo sbocco è figlio anche dei limiti soggettivi dell’Europa e, ripeto, delle responsabilità dell’amministrazione Biden che esce di scena con l’autorizzazione all’utilizzo dei missili Atacms a lunga gittata in territorio russo. Una scelta che contribuisce ulteriormente all’escalation, nucleare compreso. Servirebbe un’Europa con la schiena dritta che rilanci una nuova idea di cooperazione e sicurezza tra est e ovest, che si carichi una funzione diplomatica e che faccia valere la centralità del diritto internazionale. Invece prevalgono di nuovo gli appelli all’ennesima corsa agli armamenti: non la sfida della difesa comune come leva per un’autonomia strategica, ma più soldi per la difesa a scapito della tenuta modello sociale europeo. Non sono d’accordo. E mi batterò in tutte le sedi contro questa deriva. Quando a parlare è solo il linguaggio delle armi la democrazia va immediatamente in crisi. La destra è più capace di cavalcare un riflesso d’ordine, mentre la sinistra finisce inevitabilmente spiantata e senza missione.