di Arturo Scotto
La decisione della Corte penale internazionale di emettere due mandati di cattura per il premier israeliano Benyamin Netanyahu e per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant era attesa da tempo. Da molti mesi l’istruttoria era in corso e riguardava ovviamente anche i responsabili politici degli attentati terroristici del 7 ottobre in Israele: Yahya Sinwar e Ismail Hanyeh, i capi di Hamas che si erano macchiati dell’orrore indicibile che aveva ucciso 1200 civili e rapito 250 persone. Tutti e due sono morti negli attacchi a Gaza da parte di Israele e non potranno essere processati dalla Corte. È destinatario di un terzo mandato di cattura Mohammed Deif, che per Israele risulterebbe già morto in un bombardamento nel luglio scorso ma il cui corpo non è mai stato ritrovato.
I capi di imputazione verso i vertici israeliani sono pesantissimi: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro la popolazione civile di Gaza relativi all’affamamento, alla mancanza di aiuti essenziali come l’elettricità, l’acqua, il cibo, i medicinali, il carburante. Questi reati sono frutto della raccolta di prove che vanno dall’8 ottobre fino al 20 maggio, giorno in cui Israele aveva fatto ricorso contro la Corte per contestare la richiesta di arresto nei confronti del premier e dell’allora ministro della Difesa, poi liquidato da Bibi il 4 novembre scorso durante la notte del voto americano.
Ci troviamo davanti, oggettivamente, a una svolta che mette davanti alle proprie responsabilità l’intera comunità internazionale, perché il mondo ha assistito a un massacro che ha portato a oggi a quasi 45.000 morti civili e decine di migliaia di civili feriti senza muovere sostanzialmente un dito.
Gli Usa, che avevano le leve più importanti in mano, nonostante gli innumerevoli viaggi della speranza in Medio Oriente compiuti dal segretario di Stato uscente Antony Blinken, non hanno mai fermato il trasferimento di armi a Israele, quelle che hanno contribuito ad alimentare i crimini di guerra per cui dovrebbero essere arrestati Netanyahu e Gallant. Soltanto ieri Washington ha usato per l’ennesima volta il potere di veto in sede ONU su una risoluzione che chiedeva il cessate il fuoco permanente su Gaza e il rilascio incondizionato degli ostaggi nelle mani di Hamas. Una bancarotta morale che ha travolto anche la credibilità dei democratici americani verso le comunità arabe e verso le giovani generazioni, che infatti hanno voltato loro le spalle alle elezioni imputando a Joe Biden e Kamala Harris di praticare un doppio standard nei confronti dei civili palestinesi, evidentemente considerati sacrificabili in nome dell’alleanza indissolubile con Israele, nonostante al potere ci fosse un “amico giurato” di Donald Trump.
Trump che – lo dico per molti politici e commentatori italiani talvolta un po’ confusi – è tutt’altro che un pacifista, avendo nell’ordine promosso lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, autorizzato il più grande aumento degli insediamenti coloniali in Cisgiordania, rotto gli accordi con l’Iran promossi da Obama sul nucleare e, infine, costruito gli accordi di Abramo sulla testa dei palestinesi. Proprio in queste ore da parte del consigliere di Trump sulla sicurezza Michael Waltz arriva un attacco alla Cpi e alle Nazioni Unite verso cui – promette lui – si agirà in maniera forte perché non ritenute più credibili. Una minaccia in piena regola, un messaggio chiaro di sfiducia verso il potere di qualsiasi organismo sovranazionale. Lo stesso registro del ministro estremista per la Sicurezza interna israeliano Ben Gvir, che minaccia l’annessione della Cisgiordania dopo la decisione della Corte.
Questo lo scenario che la destra mondiale prepara: il diritto internazionale non conta, i morti non sono tutti uguali, l’ordine mondiale si costruisce attraverso le sfere di influenza e la legge delle armi. Qui ci sarebbe uno spazio per l’Italia e per l’Europa.
La Cpi è stata fondata a Roma nel 1998 e ha iniziato le proprie attività a L’Aja nel 2002. Vi aderiscono 124 paesi, tra i quali non figurano Israele, Usa, Russia e Cina. L’Italia è stato uno dei paesi che nella storia più ha spinto per la nascita della Corte e ha ospitato la sua fondazione. Sarebbe da auspicare che il governo attuale si dichiari favorevole ad attuare quanto stabilito dalla giustizia internazionale come per esempio ha fatto immediatamente il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp. Anche perché qualora Netanyahu e Gallant varcassero i confini italiani potrebbero in ogni caso essere arrestati qualora la magistratura decidesse di farlo. Ma mi permetto ahimé di dubitarne: Antonio Tajani in più di un’occasione ha ribadito il suo disaccordo con le scelte della corte su Israele. Parole gravi e vigliacche da parte di un dirigente di uno dei paesi fondatori della Cpi. E l’Ue, attraverso il tardivo commissario europeo Josep Borrell, non è andata oltre qualche anatema nei confronti del governo Netanyahu, senza usare alcuna leva dissuasiva, sanzioni comprese. Quasi tutti i governi europei hanno fatto dunque, nella migliore delle ipotesi, sfoggio di impotenza, se non addirittura di sostegno aperto alla mattanza di Gaza in nome della guerra al terrorismo.
Oggi da l’Aja arriva un messaggio inequivocabile: i dirigenti di Israele si sono messi fuori dal seminato del diritto internazionale e hanno perpetrato scientemente crimini indicibili. Lo dicono le indagini, lo dicono le immagini di questo anno terribile in cui Gaza è diventata secondo l’Onu tecnicamente inabitabile.
È un segnale anche a quella larga parte della Israele democratica che non ne può più dell’autoritarismo di Netanyahu, dei suoi conflitti di interesse, del suo disprezzo dell’autonomia della magistratura e della scelta premeditata di non aprire un vero negoziato per liberare gli ostaggi. È questo il momento per fermare la guerra e provare a trovare la strada della politica, innanzitutto per salvare la popolazione civile fiaccata dalle bombe, dai lutti e dalle epidemie, e per arrivare a quell’obiettivo del riconoscimento internazionale di uno stato di Palestina, libero e autonomo, che possa convivere in pace e sicurezza con Israele che resta l’unico obiettivo praticabile, nonostante possa apparire velleitario.
Non tocca certo alla Cpi, che deve giudicare i crimini, sostituirsi ai governi. Tocca ai governi, soprattutto quelli europei, non rassegnarsi all’orrore infinito come metodo di gestione dei conflitti.