Pubblicato da Il Corriere della Sera
di Tommaso Labate
«Zero», risponde Pier Luigi Bersani quando gli chiedono quanti detrattori incontri sul suo cammino ora che gira l’Italia «molto di più» di quanto non facesse da ministro, leader di partito, parlamentare. Non certo le vagonate di odio pubblico denunciate in tv da Chiara Ferragni, non le contestazioni che ogni tanto riceve Giorgia Meloni ma nemmeno una vecchietta che di tanto in tanto gli urli «vai a lavorareeee!» com’è capitato a Cagliari a Elly Schlein; al contrario, racconta nelle pause di questo «su e giù dal palco» delle campagne elettorali che lo stanno vedendo in prima fila — citazione da Ligabue nonostante lui sia decisamente più incline alla tendenza Vasco Rossi — non c’è viaggio in treno in cui non si avvicini qualcuno «a dirmi “sa, io sono di destra ma lei la stimo molto”, io rispondo sempre ringraziando due volte, perché il complimento è doppio».
Sarà per questo che Schlein lo considera un punto di riferimento imprescindibile e che la war room elettorale del Pd si affanna a prenotarlo, date su date, città su città, manifestazioni su manifestazioni su manifestazioni. Prima in Sardegna, dove l’evento di Carbonia con la segretaria del partito è considerato quasi «un format» per l’ufficio comunicazione del Pd, così come le sortite in solitaria a Orosei e Nuoro; e adesso in Abruzzo, dove la sua annunciata presenza non è passata inosservata neanche nel fronte opposto, col governatore uscente (e ricandidato) del centrodestra Marco Marsilio che ha causticamente notato come nel centrosinistra abbiano «riesumato persino Bersani, che ha dismesso i panni del commentatore televisivo ed è tornato a fare campagne elettorali…».
Bersani funziona sì, ma perché? «Credo che i motivi di fondo siano due: il primo — spiega lui in privato — è che le persone riconoscono la gratuità che sta dietro il mio impegno, nel senso che hanno capito che vado in giro da militante senza voler nulla in cambio». Il secondo «è che finalmente si è capito, anzi si è visto, che cosa ci fosse dietro la mucca nel corridoio di cui parlavo da anni: questa destra che evocavo nella mia metafora e che adesso è lì, radicata anche se indebolita, come se i bulloni del loro patto con le persone si siano allentati ma non del tutto staccati».
Certo, dall’altra parte c’è la difficoltà della sinistra nelle zone più lontane dalle grandi città, «guardate anche al voto dei paesini della Sardegna, che segnala a noi tutti il fatto che abbiamo smesso di andare al bar anche se il bar dovremmo tornare a frequentarlo». A parlare, dice lui, di quella linea di demarcazione «tra noi e loro», tra centrodestra e progressisti, «che adesso è tornata a essere ben visibile. Basta parlare di sanità e si capisce tutto: sei per l’universalità del servizio, che va fatto funzionare a tutti i livelli, oppure punti a dare sempre più pezzi al privato, di modo che finisca per funzionare solo per chi paga? La differenza è tutta là».
Quando gli si fa notare che le differenze sono anche tra Pd e Cinquestelle, Bersani fa un sospiro: «Capiranno tutti che i ragionamenti di certi dirigenti su un decimale guadagnato o perso non interessano al popolo, che vuole un’alleanza. Ci si arriverà col “lodo Totò”: perché è la somma, non altro, che fa il totale». Quanto a lui, di quel campo largo sperimentato in Sardegna e Abruzzo, rimane il testimonial più fedele. Ha smesso di mettere Tumbling dice dei Rolling Stones in macchina, come faceva ai tempi in cui era candidato premier, e magari pensa che tutto sommato «io sono ancora qua», come cantò Vasco Rossi al rientro dopo un lungo pit stop. «La gente mi trova simpatico», dice Bersani. Poi aggiunge: «Non ho ancora capito bene il perché».