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Guardando al Medio Oriente in cerca di futuro. Una tavola rotonda

Anna Colombo
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Mario Rossi - La Repubblica

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Il 28 ottobre scorso l’associazione “Compagno è il Mondo” ha organizzato una tavola rotonda riservata e da remoto sulla recente crisi in Medio Oriente, con l’obiettivo di approfondire il tema, allargare lo sguardo al contesto storico e regionale del conflitto, e tentare così di dare un caparbio contributo per una prospettiva di pace giusta e duratura.

Quella che segue è la sintesi degli interventi degli esperti che hanno animato la tavola rotonda per tre ore. I contributi sono stati preceduti dall’introduzione di Roberto Speranza, che ha inquadrato i lavori secondo cinque quesiti:

  • Vista la crisi post 7 ottobre, ha ancora senso la soluzione “due popoli due Stati” o è ormai troppo lontana dalla realtà?
  • Se del caso, ci sono alternative?
  • Rispetto al dramma quotidiano, c’è una strada per la de-escalation e se sì, quale?
  • Qual è il futuro delle leadership in campo? Nel caso di Netanyahu, che cosa stava avvenendo e avverrà nella società israeliana? E nel caso dell’ANP, il cui stato e i cui limiti sono da tempo noti, come uscire dal consenso che Hamas sembra avere nella società palestinese (non solo a Gaza) e in parte del mondo arabo?
  • In questo quadro medio-orientale, la questione cruciale appare nuovamente quella del disordine mondiale. Siamo ancora una volta di fronte a un conflitto puntuale (Israele Palestina) che ha ripercussioni su un’intera regione (mondo arabo) ed ha, come nel caso dell’Ucraina, un’ulteriore dimensione planetaria legata agli attori globali (USA, Cina, Russia). Sembra che l’equilibrio post ’45 abbia esaurito la sua capacità di offrire pace e convivenza. Un nuovo ordine mondiale può nascere solo dalla politica. Ma il rischio attuale è che le guerre (le tante guerre nel mondo) e cioè il conflitto, si sostituiscano alla politica.

Ferdinando Nelli Feroci (Presidente Istituto Affari Internazionali, già Rappresentante Permanente dell’Italia presso l’UE), ha esordito dicendo che il problema palestinese è stato accantonato dalla comunità internazionale per troppo tempo. Ma dal ’48 al ’73 ci sono state quattro guerre, vari tentativi di pacificazione più o meno riusciti, e innumerevoli episodi violenti. Ciò che ha colpito e sorpreso è stata certo la brutalità dell’attacco del 7 ottobre, in questo con le dovute proporzioni, il paragone con il 9/11 è calzante.

Sullo sfondo, da sempre, la difficoltà a conciliare il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele con una soluzione giusta e sostenibile al problema palestinese. Tema rimosso non solo dalla comunità internazionale ma anche dai più recenti governi israeliani (e dai paesi della regione, infastiditi, e non da oggi). Addirittura, in qualche modo, è noto come i più recenti governi israeliani e l’ultimo in particolare abbiano facilitato il successo di Hamas per meglio dividere e indebolire il campo palestinese. Per Hamas, gli obiettivi dell’efferato attacco del 7/10 sono molteplici: destabilizzare un paese già profondamente diviso, dimostrare che Israele non è invincibile, scatenare purtroppo la sua reazione costringendo così i paesi arabi ad uscire dall’ombra, bloccare gli accordi di Abramo e riportare la questione palestinese al centro della scena.

Il rischio attuale di un’escalation è molto concreto. Escalation che può essere di tipo verticale (a Gaza) ma anche orizzontale (allargamento in Cisgiordania e alla regione, esempio immediato Libano-Hezbollah).

Per quanto riguarda gli attori in campo, gli Usa si sono mossi subito nella persona del Presidente che ha portato un doppio messaggio: solidarietà ma anche richiesta di moderazione. Con un appello di importanza straordinaria, non ripetere errori USA del post 11/9. Resta da vedere se queste premesse saranno l’inizio di un nuovo attivismo americano nella regione. Purtroppo l’UE non ha per ora dato grande prova di sé, è apparsa timida, cacofonica (fra istituzioni) e profondamente divisa fra i 27. I paesi arabi “moderati” hanno il problema immediato di gestire la protesta popolare, ma non appaiono intenzionati a giocare un ruolo, impegnati come sono a scongiurare in primis l’afflusso di rifugiati. L’Iran resta la grande incognita, e mantiene un atteggiamento prudente, anche se non ci sono ormai dubbi che sia l’artefice del sostegno ad Hamas, seppur resti poco chiaro fino a che punto gli iraniani siano stati informati dell’attacco del 7/10. Il Qatar può continuare a giocare un ruolo molto importante soprattutto nella liberazione degli ostaggi. La Russia mantiene una posizione distaccata, anche se si è allontanata dalla tradizionale neutralità; non vi è dubbio che stia quantomeno traendo vantaggio dall’alleggerimento dell’attenzione mediatica rispetto all’UA. La Cina resta prudente, solidale con la Palestina ma non in modo “militante”. Sullo sfondo, un preoccupante allargamento della distanza fra West and the Rest.

Nel breve termine gli obiettivi sono evitare ulteriori spargimenti di sangue, contenere la regionalizzazione del conflitto, e scongiurare i rischi di ripresa del terrorismo di matrice islamica, soprattutto in Europa. Ma sul medio e lungo termine il faro deve restare l’iniziativa politico diplomatica verso una soluzione duratura. Due popoli due Stati appare difficile ma deve rimanere la bussola, perché non ci sono alternative. Per arrivarci ci vogliono leadership legittimate, e questo è il tema forse più complicato fra quelli posti.

Per disegnare il futuro, l’ONU è paralizzata e in ogni caso avvertita come ostile da parte di Israele. Rimane in campo solo un’eventuale iniziativa USA, l’attivismo di Biden è un segno incoraggiante. In passato Carter, Clinton… hanno ottenuto risultati. I paesi arabi “moderati” si accoderebbero, e cosi farebbe l’UE. Resta il tema “West vs the Rest” (con West a trazione USA e Rest unito dalla contrapposizione con l’avversario) estremamente delicato. Colmare questa distanza è un compito cruciale e cui siamo tutti chiamati a contribuire.

Leila Chahid, da Parigi (diplomatica, dirigente OLP a fianco di Arafat, ambasciatrice OLP in vari paesi e Delegata Generale per la Palestina presso l’UE dal 2006 al 2015) ha ricordato, ringraziando per l’invito, che in queste settimane si è ascoltata poco la voce della Palestina. Ciò che sta accadendo nuovamente non è una guerra fra due Stati, ma una specie di tragedia greca, nella quale, fatto inedito nei tempi moderni, adesso le vittime sono quasi esclusivamente civili, israeliani e palestinesi. Conseguenza della fine del processo di pace, che è relegato nel dimenticatoio dalla comunità internazionale. Perché non si trattava solo un processo fra due parti, fra l’altro con un peso molto diverso, era un processo internazionale. I palestinesi erano accompagnati da tutta la comunità internazionale, anche garante contro l’evidente asimmetria. Ricordiamo che Oslo comincia… a Madrid, nel 1991, il primo tentativo serio e legittimato di pace dopo la caduta del Muro. E Oslo finisce con l’assassinio di Yitzhak Rabin; Arafat lo capi immediatamente, perché Rabin, per Arafat, era stato l’unico leader israeliano a crederci profondamente e veramente. Dopo, Israele ha avuto quasi esclusivamente leadership di destra o estrema destra. E non si è riusciti mai a far sottostare i suoi governi ai principi del diritto internazionale.

Per il futuro, contrariamente all’oratore precedente, Chahid non crede si possa contare sugli USA. Per esempio, si pensa che Biden abbia inviato in Israele esperti militari in guerrilla urbana, e che questa sia la vera ragione del rinvio dell’invasione di terra. In fondo, Daesh e i Talebani sono prodotti dell’azione americana nella regione. Gli USA e la loro dottrina stanno condizionando anche il peso dell’UE sulla scena internazionale. Non avevamo mai visto un’Europa così debole e divisa prima d’ora!

La tragedia che stiamo vivendo da decenni è ancorata a una dimensione emotiva e passionale molto forte (comprensibilmente), quella della Shoah, il peggior genocidio, il crimine assoluto contro l’umanità. Questa dimensione pero, se sola rischia di soffocare il negoziato per l’intera regione. Ci vogliono razionalità, riflessione, laicità e diplomazia. In fondo, a metà degli anni ’90 eravamo così vicini a un accordo, sotto l’egida della comunità internazionale. Dobbiamo ripartire, ora le forme che prenderà un accordo non sono essenziali, partiamo da uguali diritti, cessate il fuoco, rispetto del diritto internazionale, fine delle colonie. Ma ci vuole certamente un cambio di leadership politica da entrambe le parti. Netanyahu, già contestato prima, vivrà una forte reazione degli israeliani contro il suo governo (nel quale, lo ricordiamo, siedono elementi dell’estrema destra con incarichi delicatissimi). E l’ANP, da tempo indebolita e delegittimata anche per il continuo negare il tenersi delle elezioni, deve capire che i palestinesi hanno il diritto di scegliere i propri dirigenti, ci sono giovani abili e preparati che attendono con impazienza.

Ma abbiamo bisogno soprattutto dell’Europa. Non abbiamo bisogno degli USA e dei discorsi su Bene contro Male, guerra di religione, scontro di civiltà. Narrazione peraltro pericolosa per chi vive in Europa e anela a una convivenza pacifica. Si tratta di un conflitto che dura da 75 anni, con un’occupazione da 56 anni. Gli accordi di Abramo, in questo senso, sono stati un modo maldestro di relegare la Palestina nel cassetto, con i risultati, purtroppo, che vediamo oggi.

Francesca Borri, da Nablus-Cisgiordania (inviata di Repubblica, scrive anche per Yedioth Ahronoth), ha portato una testimonianza fondamentale sulla realtà dei territori in questione. Ha esordito ricordando come la terza Intifada dello scorso anno sia stata condotta quasi esclusivamente da ventenni, e in modo indipendente sia da Hamas che da Fatah. Quando Hamas ha chiamato alle armi pochi giorni orsono, ha clamorosamente fallito. La fiducia nell’ANP e in particolare in Mahmoud Abbas è ai minimi. Se si può ancora sperare in una riforma dell’ANP, Abbas ha ormai 88 anni… Ma stesso discorso vale anche per i leader di Hamas, e anche per i Barghouti, i due leader indipendenti più popolari (Mustafa e persino Marwan).

È possibile che il futuro porti non a elezioni, bensì a un governo palestinese di unità nazionale, che includa quindi Hamas. Perché, occorre dirlo, l’appoggio a Hamas è maggioritario ormai. Non nel senso politico, ma Hamas incarna nell’immaginario collettivo resistenza e iniziativa. Per questo eliminare Hamas è un obiettivo impossibile, perché è nella società. Ma in realtà, come nel resto del mondo, partiti e rappresentanza sono in crisi anche qui.

L’età media in Cisgiordania è di 21,3 anni. Nessuno riesce ormai a interloquire con questi ragazzi, arruolati da Hamas ma veramente giovanissimi, non hanno nessun riferimento, né ideologico né di prospettiva territoriale. Combattono per vendicare genitori, sorelle e fratelli, parenti, amici. Quasi che ormai la vendetta (non la giustizia) fosse un fatto individuale e privato. Che società si potrà costruire con questi giovani, che vivono nella disperazione da ormai 20 anni (tutta la loro esistenza) in Cisgiordania e a Gaza?

L’UE non conta più nulla, e difficilmente potrà giocare un ruolo. Basti pensare che dopo l’operazione “Piombo Fuso”, nel 2007, fu proprio l’UE a sostenere la ricostruzione di Gaza. Dopo di allora, le ricostruzioni sono affidate al Qatar, agli EAU, o alle poche risorse proprie dell’ANP. La quota di finanziamento UE all’ANP è passata dal 70% al 3%.

Per anni i palestinesi hanno scelto la via pacifica e il negoziato. Seggio osservatori ONU, Corte penale internazionale, manifestazioni non violente (ricordiamo le marce del venerdì). Persino Hamas, per un periodo, ha scelto e tentato la strada pacifica. Non è servito a nulla, non c’è stato alcun risultato. Per troppo tempo la comunità internazionale, l’Europa, noi tutti, non abbiamo voluto guardare, ma non si può vivere a lungo dove manca la libertà.

Tornando all’attualità, prima o poi si dovrà arrivare ad un cessate il fuoco. Ma quali leadership si siederanno al tavolo negoziale? Per la Palestina si è ampiamente detto, vale anche per Israele.

La soluzione “due popoli due Stati” sembra lontana anche dal punto di vista geografico, tanto frammentato è ormai il territorio. Ma sono soprattutto i due popoli ad essere in crisi, si tratta di due società completamente disgregate, che difficilmente, restando così le cose, riusciranno a convivere.

Giorgio Gomel (CESPI, IAI, Jcall europe, www.jcall.eu) ha esordito ricordando l’ultimo vero tentativo di negoziato al fine di “due popoli due Stati” nel 2014 da parte dell’amministrazione Obama. Attualmente, recenti sondaggi mostrano che solamente 1/3 degli israeliani e 25% dei palestinesi sarebbero d’accordo, percentuali in declino costante. Tuttavia, la soluzione “due popoli due Stati” resta la sola possibile. Certo, giungere a tale esito comporta straordinarie complicazioni. Ma il costo della
non-pace è ben maggiore da tutti i punti di vista.

In Israele, inquieta il disinvestimento dell’opinione pubblica negli ultimi anni a favore di una soluzione al problema palestinese e per il futuro della nazione. Delle tre variabili a) Israele stato-nazione del popolo ebraico, b)Israele paese democratico, c) ulteriore espansione delle colonie in Cisgiordania, solo due sono possibili. Quindi, debbono ancora valere le condizioni negoziate fino al 2014: sgomberare le colonie, abbandonare l’occupazione e procedere allo scambio paritario di territori. Come ha già ricordato l’ambasciatrice Chahid, si era arrivati a negoziare uno scambio territoriale uno a uno pari a circa il 4% della Cisgiordania. Ciò consentirebbe di incorporare in Israele circa 320.000 coloni che abitano in grossi insediamenti semi urbani lungo la linea di separazione, ne resterebbero 130.000 (che potrebbero restare in Palestina, accettandone la sovranità, oppure tornare, con conseguenti costi ed indennizzi significativi da parte dello Stato israeliano). L’alternativa è purtroppo quella della segregazione, delle diseguaglianze, di un conflitto permanente segnato dalla guerra civile tra arabi ed ebrei in un unico stato come de facto si sta via via creando.

Non che non siano state discusse altre soluzioni: in Israele mondo accademico e società civile hanno dato vita a un movimento israelo-palestinese “A Land for All” che immagina soluzioni di tipo confederale. Yossi Beilin e un’accademica palestinese hanno scritto un libro che propone due Stati – ciascuno con parlamento e governo – ma con libertà di movimento sia per i rifugiati palestinesi che per i coloni Israeliani, questi ultimi liberi di scegliere se restare in Palestina con diritto di voto in Israele o tornare.

Anche per il problema fisico-territoriale si sono in passato immaginate soluzioni. Nel 2005 allorché Israele si ritirò dalla striscia di Gaza per esempio era sul tavolo legame fisico nella forma di un ponte sospeso o una ferrovia, oppure una superstrada, o altre soluzioni “sicure” e protette per percorrere i 40 km che dividono la Striscia dalla Cisgiordania. Le responsabilità palestinesi nel fallimento dei negoziati sono molto gravi. Ma Israele non è esente da colpe. La sicurezza di Israele non può fondarsi sull’uso delle armi. E’ un paese al tempo stesso forte e debole, con 7 milioni di ebrei circondati da un mondo arabo che ne ha messo in forse la mera esistenza: occupante ed assediato al tempo stesso. L’angoscia del 7/10 sta anche nel fatto che per la prima volta dal ’48 l’attacco omicida così efferato è avvenuto nel territorio dello stato, un trauma immane anche sul piano esistenziale. Certo, il presupposto è la sconfitta politica e militare di Hamas. Ma ci vuole la convinzione presso gli israeliani che il futuro del proprio Paese passa dalla trattativa e non dalla violenza. La violenza attuale, sproporzionata e contro il diritto internazionale, isola Israele, aumenta il risentimento, rischia di produrre epigoni di Hamas.

Le urgenze attuali per Israele stanno nel capire la misura della reazione a Gaza, contenere Hezbollah al Nord sui confini col Libano, ed evacuare le proprie popolazioni ai confini Nord e Sud. Questione poco nota, ma sono state già evacuate oltre 200.000 persone che stanno ora vivendo in scuole e alberghi, ulteriore dramma collettivo che si aggiunge al trauma. E il 50% degli Israeliani ritiene che l’offensiva di terra rischi di pregiudicare la sorte degli ostaggi ((236 oggi, di cui oltre 100 bi-nazionali o non israeliani). E proprio nei kibbutz, in una parte di quei kibbutz colpiti il 7/10, grazie alla società civile e ai volontari erano in corso esperienze di convivenza e sostegno ai vicini palestinesi, anche volte al trasferimento e alla cura dei malati di Gaza negli ospedali israeliani.

Quale exit strategy per il dopo Gaza? La prima questione urgente è l’intervento umanitario, anche nell’incertezza sul che accadrà al valico di Rafah sul confine con l’Egitto,, cosi come l’ingresso ingente di aiuti. Ma poi occorre interrogarsi sulla gestione della Striscia, del suo governo nel dopoguerra. Si può immaginare che persino l’attuale governo Netanyahu non persevererà nella sua ri-occupazione. È altresì molto improbabile che i vicini arabi (Egitto, AS, EAU, Qatar) accettino di farsene carico. Si potrebbe ipotizzare l’emergere di una leadership locale alternativa ad Hamas, o il ritorno di una ANP riformata, o un’amministrazione civile provvisoria alla stregua dell’Iraq post 2003, formata da moderati palestinesi con il sostegno dei paesi del Golfo. Infine l’immane opera di ricostruzione di abitazioni e infrastrutture in zone oggi inabitabili a cui la comunità internazionale dovrà dedicarsi.

Marco Carnelos, da Dubai (già ambasciatore in Iraq, già inviato speciale in Siria e per il processo di pace fra Israele e Palestina), ha tenuto a sottolineare dettagli che, come si dice,  possono risultare “diabolici”. Secondo il diritto internazionale e il servizio giuridico dell’ONU, Gaza è ancora occupata, come già evocato da Giorgio Gomel. I confini sono sigillati, nulla entra o esce senza autorizzazione, l’aeroporto è chiuso, i nuovi nati sono registrati da Israele, la valuta usata nella striscia è quella israeliana, il valico egiziano di Rafah è controllato e aperto solo previo accordo Egitto/Israele.

L’attacco del 7/10 è senz’altro un attacco terrorista, ed ingiustificato. Difficile, tuttavia, sostenere che non sia provocato. Dal 1967, per scelta o per necessità, Israele è in una postura offensiva. L’occupazione ha comportato uccisioni a sangue freddo ai posti di blocco, i crimini impuniti dei coloni, lo sgombero delle terre e degli immobili. Ciò che accade a Gerusalemme Est e in Cisgiordania è un tentativo di annessione strisciante. Dal 2008 ad oggi sono 6000 i palestinesi uccisi, ai quali si aggiungono gli attuali 7000, che potrebbero essere molti di più senza un cessate il fuoco. Ha ragione il Segretario Generale dell’Onu Guterres: il sacrosanto diritto all’autodifesa di Israele va contestualizzato negli ultimi 56 anni di occupazione israeliana dei territori
palestinesi. Altrimenti rischiamo tutti di finire nell’amnesia anterograda che purtroppo già caratterizza la nostra epoca e che si è manifestata anche per il conflitto in Ucraina.

Alcune dichiarazioni degli esponenti di estrema destra del governo israeliano, come quelle di Ben- Gvir e Smotrich, inneggianti alla pulizia etnica sono impensabili in Europa. Ma se Hamas il 7/10 avesse attaccato obiettivi militari e ucciso solo soldati, la stampa internazionale avrebbe comunque parlato di terrorismo, che ai sensi del diritto internazionale, in un territorio sotto occupazione, non lo sarebbe stato, restando tuttavia gli atti di Hamas efferati, condannabili e esecrabili. La sproporzione della reazione israeliana si è sempre manifestata in tutti i precedenti conflitti sia a Gaza che in Cisgiordania. Israele ritiene che l’ONU sia ostile, anche se il Paese è nato anche grazie ad una risoluzione dell’ONU, e al Consiglio di Sicurezza lo Stato ebraico è sempre
protetto dal veto USA.

Le democrazie occidentali tergiversano, ma nelle piazze va in scena un’altra storia, come a New York dove il vero ebraismo pacifico e compassionevole ha dato bella prova di sé nella grande manifestazione dentro la Grand Central Station. L’Unione Europea appare persino in bancarotta morale. Bene hanno fatto Von Der Leyen e Metsola a mostrare solidarietà a Israele recandosi a Gerusalemme; ma durante la loro visita il Presidente della Repubblica Herzog ha dichiarato che “non ci sono civili innocenti a Gaza”, facendo quindi passare l’ignobile concetto di responsabilità collettiva dei palestinesi ed entrambe non hanno reagito proferito parola verso un simile abominio.

Che dovrebbe fare la comunità internazionale? Certamente esprimere una condanna durissima e inequivocabile di Hamas per avere perpetrato atti di terrorismo fra l’altro contrari ai principi dell’Islam. Al tempo stesso, condannare l’occupazione dal 1967, come una illegale e costante fonte di provocazione e di incitamento all’odio.

La soluzione due popoli due Stati è la sola possibile, ma anche l’unica percorribile, lo ha spiegato bene Giorgio Gomel.

A patto che sia imposta dalla comunità internazionale, perché le parti in causa non sono oggi in grado, per motivi diversi, di negoziarla. E l’iniziativa non dovrebbe essere lasciata agli USA che per ragioni antropologiche, politiche e culturali non sono percepiti come equidistanti, come dovrebbe qualsiasi mediatore o un facilitatore negoziale. Non ci sono alternative. Uno stato unico con pari diritti non è immaginabile, fosse anche solo per ragioni demografiche.

Per quanto riguarda il nuovo ordine mondiale, ci sono poche certezze dal momento che gli USA hanno legato la vicenda in esame con il conflitto Russia Ucraina e in qualche misura con quello fra Cina e Taiwan, mettendo tutte insieme queste crisi in un’unica richiesta di fondi aggiuntivi al Congresso. Ma verrebbe da dire che l’ordine mondiale del dopoguerra a guida statunitense secondo il quale, purtroppo, le regole universali sono state valide per molti ma non per pochi eletti, sembra sembra stia perdendo la sua spinta propulsiva e la sua legittimità. Quello che verrà dopo si fatica ancora ad intravederlo, sicuramente un assetto più multipolare ma le sue caratteristiche restano ancora incerte.

Massimo D’Alema (Presidente della Fondazione Italianieuropei), ritiene che ciò che sta accadendo in Medio Oriente mostra e dimostra anche, in Italia e in Europa, lo scivolamento progressivo della politica, dei media e dell’opinione pubblica in direzione contraria rispetto ai nostri valori e le nostre tradizioni. Pare si sia già – persino nel linguaggio – nella cultura dello scontro di civiltà.

Certo, si riconosce ora che Israele sta esagerando nella risposta, tuttavia si omette di ricordare che è sempre stato questo, come diceva Carnelos, il comportamento delle forze di occupazione nei confronti dei civili palestinesi. Né si è parlato in Italia dei recenti rapporti di Amnesty, Save the Children, UNHRC. Secondo Save, per esempio, prima della fase in corso, già erano stati uccisi nel 2023 più bambini che negli anni passati. La realtà però, esiste, come ha ricordato Francesca Borri, anche se non la si racconta. Per fortuna abbiamo Haaretz, e proprio su Haaretz Gideon Levy ha recentemente scritto che la gran parte delle uccisioni dei civili palestinesi perpetrate dalle truppe di occupazione è priva di giustificazione. Pensiamo all’assassinio della giornalista Shireen Abu Akleh da parte di un cecchino israeliano. O ai pogrom dei coloni spalleggiati dall’esercito che espropriano, occupano, e uccidono chi rifiuta di andare via.

Il futuro, come ha detto Leila Chahid, passa dalla capacità di Israele di conformarsi al diritto internazionale e al rispetto delle sue regole. Nel governo attuale sono rappresentate forze estremiste e fondamentaliste che teorizzano l’uso delle bombe atomiche contro i palestinesi o la deportazione in massa nel Sinai della popolazione di Gaza senza che questo susciti l’orrore dei benpensanti di casa nostra. Tutto ciò ha poco a che vedere con la cultura democratica dell’Occidente e con l’idea che ci eravamo fatti di Israele come avamposto della democrazia in Medio Oriente.

La verità è che non può essere libero un popolo che ne opprime un altro, e l’impressione è quella di un costante logoramento della democrazia israeliana. Anche i palestinesi si sono ormai radicalizzati. Da una tradizione profondamente laica sono stati progressivamente coinvolti nel fanatismo. E un conflitto religioso, a differenza di un conflitto politico fra Stati, non ha soluzione perché porta con sé l’odio e la distruzione dell’altro in quanto infedele. Il fallimento dei dirigenti palestinesi (che per incapacità, corruzione, asservimento ha facilitato l’estremismo di Hamas e oltre), in parte per responsabilità proprie in parte per l’abbandono da parte della comunità internazionale, è evidente.

D’Alema ricorda di essere stato fra gli osservatori delle elezioni palestinesi, fortemente volute dall’UE. Elezioni che si svolsero regolarmente sotto tutti i punti di vista, salvo poi decidere che con i vincitori non si poteva interloquire. Un colpo alla coerenza occidentale. Quando si intervenne con l’UE e l’ONU per scongiurare la guerra in Libano (si trattò dell’ultima grande iniziativa di politica estera italiana ndr) D’Alema ricorda che in quanto ministro degli Esteri suggerì 3000 osservatori ONU per la Striscia. Israele e Hamas rifiutarono immediatamente, all’unisono. Per questo, se vogliamo immaginare un “dopo”, al di là dell’auspicio di nuove leadership democratiche e pacifiste, che appaiono lontane, occorre una forte presenza internazionale, probabilmente araba in gran parte, e sotto l’egida dell’ONU.

La formula due popoli due Stati sa purtroppo ormai di retorica ripetitiva e superficiale. Ha perduto corpo, almeno nella forma immaginata ad Oslo. Le leadership israeliane che hanno prevalso dopo, non hanno mai condiviso una tale prospettiva. Tant’è che si configura ormai uno Stato con cittadini di diverse categorie (Israeliani, Arabi, Palestinesi) che non hanno pari diritti. Come scritto nell’ultimo, corposo rapporto di Amnesty passato inosservato in Italia, si tratta di “apartheid” secondo il diritto internazionale. L’ipotesi più negativa evocata da Giorgio Gomel è già in atto, quindi, un regime di occupazione permanente.

Per tutto questo la proposta confederale di Yossi Beilin appare al momento più realistica, seppure sempre difficile, rispetto a Oslo. Ma, ripetiamo, nessuna pace sarà possibile senza il coinvolgimento della comunità internazionale (Europa in primis) e senza che Israele rispetti le regole universali.

Sull’Europa, ha ragione Nelli Feroci… ma l’UE sarà la prima a soffrire, accelerando il suo declino e la sua fine, se passa l’idea dello scontro di civiltà teorizzato dalle destre europee e dall’islamismo.

L’ordine mondiale post ’45 è finito nell’89. Ci si è illusi che potesse essere sostituito dall’ordoliberalismo a trazione americana, dalla fine della Storia; assistiamo invece al caos di un multipolarismo conflittuale pieno di rischi, nel quadro del declino dell’Occidente ( le prospettive dell’economia mondiale da qui a fine secolo parlano chiaro – cfr. ultimo rapporto outlook di Goldman-Sachs).

Il conflitto in atto in Medio Oriente mette, infine, definitivamente in crisi lo schema USA fra Buoni da una parte, addetti della democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani, e il resto del mondo. A questo giro il doppio standard è insostenibile.

Sfortunatamente, con grande dispiacere di tutti noi, in questa tragedia l’unico a trarre giovamento sembra essere… Putin.

Chiudendo la tavola rotonda, Roberto Speranza ha ringraziato tutti gli interlocutori i quali, anche con sfumature e opinioni diverse, hanno arricchito la nostra conoscenza dal punto di vista diplomatico, accademico, e sul campo. È stata una riflessione alta, che uscendo parzialmente dall’attualità inevitabilmente ha mostrato anche i limiti del dibattito in Italia. Un terreno possibile di studio ulteriore pare essere quello del futuro della Regione nella declinazione della convivenza proposta da Yossi Beilin; ci torneremo. Il nostro vuole essere un contributo per la Pace, contro l’idea che basti una scintilla nella guerra mondiale a pezzi evocata da Bergoglio per portarci tutti verso la catastrofe.

Perché, caparbiamente, per noi “Compagno è il Mondo”.

 

 

 

 

 

 

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