Diario di Arturo Scotto in viaggio in Terrasanta con Roberto Speranza. 1/
17 dicembre
Gerusalemme
“Ci hanno prima applaudito retoricamente come la meglio gioventù – termine che torna di moda per il ventennale dello splendido film di Marco Tullio Giordana – poi ci hanno detto a un certo punto che eravamo come i taxi del mare, ora sembra quasi che siamo fiancheggiatori del terrorismo”. Non fa troppi giri di parole il cooperante che ci accoglie mentre ci riuniamo con tutte le ong e il direttore dell’Aics Guglielmo Giordano, che purtroppo tra qualche giorno lascerà Gerusalemme per altro incarico.
Il radicamento della nostra cooperazione allo sviluppo in Terrasanta ha radici antiche, si basa su una presenza sul campo apprezzata da israeliani e palestinesi: gli ingredienti sono la concretezza, la capacità di mantenere relazioni durature e profonde con la popolazione civile, di ascoltare senza mai apparire come quelli che fanno solidarietà per passarsi la mano sulla coscienza. Qui la cooperazione italiana ha fatto grandi cose in Cisgiordania come a Gaza, ma oggi ci trasmette un senso di impotenza clamoroso.
Il 7 ottobre è uno spartiacque, la barbarie di Hamas ha cambiato tutto, ma la situazione era già profondamente segnata da tempo. E anche per le ong si tratta di un’altra fase. Senza troppi giri di parole, basta guardare un grafico che ci hanno sottoposto: nel 2021 la cooperazione allo sviluppo riceveva 15 milioni per i progetti di sviluppo (dall’educazione alla salute, dall’agricoltura alla cura dei bambini all’implementazione delle piccole imprese) a fronte di 5,2 milioni per l’emergenza umanitaria; nel 2022 16,3 milioni a fronte di 3,6. Nel 2023 solo 11 milioni: tutti sull’emergenza umanitaria e niente allo sviluppo. Dunque siamo davanti a un cambio radicale, per la verità già figlio di una scelta presa dal Governo Meloni nel luglio di quest’anno: tagliare i fondi alla cooperazione in Medio Oriente e dirottarli sull’Africa subsahariana. Dai 25-27 milioni annui ai 9 milioni previsti nel 2023.
Possono apparire numeri aridi: ma dentro c’è la spiegazione di quanto il conflitto israelo-palestinese abbia perso centralità e peso per il nostro paese. L’emergenza è solo e soltanto l’Africa, anche perché da lì partono i flussi migratori, da lì passano le scelte strategiche della destra. Tant’è che sono settanta giorni – praticamente dall’attentato di Hamas – che i pagamenti sono sospesi, le ong non riescono a garantire gli stipendi degli operatori sul terreno e i dieci progetti già finanziati su Gaza e Cisgiordania sono fermi al palo.
Nel frattempo, abbiamo tagliato qualsiasi forma di finanziamento all’Urnwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione) che ha perso oltre 120 operatori in queste settimane di conflitto a Gaza. Purtroppo anche la nave militare trasformata in ospedale che doveva soccorrere la popolazione civile al momento è bloccata in Egitto perché il porto di Gaza è minato. Per non parlare dei camion con gli aiuti per soddisfare le esigenze minime: continuano ad arrivare a singhiozzo. I cooperanti calcolano che dovrebbero essere almeno 500 al giorno, come era prima del 7 ottobre. Ci sono stati giorni che ne sono arrivati massimo 3 – nel pieno delle operazioni militari – mentre durante la tregua non sono arrivati a 200. Ormai si parla di emergenza fame, con le persone che assaltano i pochi camion che arrivano e l’esplosione del mercato nero.
Testimoni di pace che scompaiono, perché questa guerra sembra non dover lasciare alcuna traccia, inghiottita nel buco nero di informazioni rarefatte e guerra dei numeri. Così come ci dice la deputata della Joint List (arabo-israeliana) Adua Touda, che abbiamo incontrato all’American Colony, sospesa per due mesi dalla Knesset perché aveva denunciato i fatti di Gaza definendoli crimini di guerra. Ci parla della cinica e incomprensibile guerra dei numeri: 6000 bambini? No, molti meno, smentiscono le autorità israeliane. Come se la vita di un bambino israeliano e quella di un bambino palestinese non fossero uguali. Una vita spezzata non dovrebbe avere identità nazionale o sfumatura religiosa. Adua ci parla di nuovo fascismo, di rischi per la libertà di espressione, che colpiscono soprattutto quella fascia di popolazione araba che pur cittadina di Israele ha diritti di serie b.
Padre Ibrahim Faltas ci accompagna a cena in una città vecchia deserta e buia (colpisce la presenza di un pianoforte senza pianista lasciato all’aperto nel cuore della parte armena) insieme all’eccellente personale diplomatico della Farnesina, molto giovane e preparato, sbarcato qui poche settimane prima dell’inizio della crisi. Faltas è una personalità fondamentale di Gerusalemme, un uomo dai mille rapporti, indimenticabile protagonista della difesa di Betlemme nei giorni difficili dell’occupazione di qualche anno fa quando i tank arrivarono fino alla chiesa della Natività. Ci dice: andate lì prima di Natale, nessuno racconta quella realtà perché tutti sono concentrati su Gaza o sui territori più caldi della West Bank. Ma Betlemme è un pugno nello stomaco, con la fine dei pellegrinaggi è svuotata ed esposta.
Resta l’amaro in bocca di quello che ci dicono alla fine i cooperanti: i nostri permessi scadono a febbraio, al momento dal ministero degli affari sociali israeliano non è ancora arrivato nulla. Ci chiedono di aiutarli a ottenere visti di servizio. Persino gli operatori delle Nazioni Unite al momento hanno visto rinnovare pochi visti (21 su 60 e per pochi mesi), e l’Unicef nessuno. Ci chiedono: impegnatevi per evitare la fine della cooperazione in Terrasanta. Si va a dormire. Domani Patriarcato latino di Gerusalemme, Nablus e Ramallah.
(1/continua)