La solitudine della pace. Resistere alla nuova propaganda di guerra

di Giuseppe Mazza
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Mario Rossi - La Repubblica

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Pace

di Giuseppe Mazza

Cosa vuole da noi la propaganda di guerra? Certo non pensa più di poterci far partire per il fronte e da tempo ha rinunciato a poetare su quanto sia dolce morire per la patria. Ai propagandisti basta guardare i sondaggi per capire che non è aria. No, c’è qualcos’altro che con la sua pressione si cerca di ottenere. Come scrisse Noam Chomsky, la propaganda vuol farti sentire una persona «impotente, isolata, tagliata fuori». Il bombardamento mediatico in favore del bellicismo può dire cioè di aver avuto successo ogni singola volta che un sentimento pacifico fatica a esprimersi e viene deriso, considerato parola vuota. E il suo trionfo si misura su ogni persona ritiratasi nel dolore privato davanti allo spettacolo tragico delle guerre, perché trova impossibile articolare il proprio rigetto, mentre retoriche militariste spudorate rompono ogni argine, invadono i media e spadroneggiano nei discorsi comuni.

È qui che inizia la solitudine della pace. Un sentimento che oggi si fa largo nelle coscienze civili, dopo anni di telegiornali bellici e quotidiane invocazioni di una cultura del riarmo. Ma questo stato d’animo non è qui da sempre. Da comunicatore rifletto da anni su discorso di guerra e discorso di pace in occidente. E c’è qualcosa che porto con me. Il senso della storia. Quella, come si dice, con la esse maiuscola. Perciò penso che oggi il pericolo maggiore per il discorso di pace, la radice della sua condizione solitaria, possa essere proprio questo: aver perso il suo legame con la storia.

Guardiamo indietro per un momento. Nella Prima guerra mondiale le testimonianze pacifiste furono dolorose quanto grandiose. La dimensione della morte di massa era stata sconvolgente, oltre quindici milioni di caduti, ma la domanda di pace aveva risposto con tenacia, raccontando i volti trasfigurati, le mutilazioni, il gas nervino… non tacendo niente di quell’inutile strage, come la definì Benedetto XV. Per denunciarne gli orrori vennero inventati nuovi linguaggi, dai fotomontaggi alle mostre educative, e dopo la guerra ci furono libri, opere teatrali e film di indimenticabile intransigenza, che tuttora sono testimonianze vive: Remarque, Friedrich, Gance, Kraus… C’era qualcosa che legava tutte queste opere: le radici nel loro tempo. Il discorso di pace urlava il suo scandalo perché il progresso umano era stato tradito, all’improvviso scaraventato nelle trincee. Nelle manifestazioni si sventolava il vessillo della pace perché era inaccettabile che l’evoluzione sociale e l’emancipazione delle masse fosse stata abbandonata a una simile violenza.

La guerra di Spagna vide insorgere la denuncia pittorica di Guernica, la grafica militante, e ancora una volta un racconto pacifista della guerra come ingiustizia antistorica. I bombardamenti sulle città, le stragi dei civili, le decimazioni, le atomiche, tutte esperienze mostruose che consolidarono il rigetto collettivo… ma arriviamo alla fine della Seconda guerra mondiale. I partigiani, lo sappiamo, hanno combattuto perché quella contro il male assoluto della dittatura razzista fosse l’ultima delle guerre, perché quel sacrificio fosse un tornante della storia. E l’articolo 11 della Costituzione giunse a sancire un punto di arrivo che certo non era soltanto giuridico. Era un intero popolo a compiere uno scatto in avanti, a volersi liberare da un passato di tragedia. Si comprendeva la profondità dell’errore: aver ritenuto la guerra uno strumento. Un errore davanti al quale il dolore non bastava più. Serviva un’abiura. Un intento chiaro. Una garanzia per le prossime generazioni.

Ma come esprimere questa consapevolezza? Con quali parole metterla nero su bianco? Ripercorrere il dibattito in seno alla Costituente e la sua ricerca della parola giusta è persino emozionante. L’Italia rinuncia alla guerra? L’Italia condanna la guerra? No, lo sapete: l’Italia ripudia. Perché si voleva esprimere anche un giudizio. Perché si ripudia ciò che era tuo, ciò che non vuoi più. Ripudiare la guerra non era cioè solo disapprovarla ma anche separarsi da una vergogna che ci era appartenuta, che avevamo inflitto ad altri popoli. E nella scelta di questo verbo così radicale, c’era sì uno sguardo amaro verso il proprio passato ma un modo di guardare il proprio presente. Il presente eterno della Costituzione che, come ha ricordato il presidente Mattarella di recente, è un progetto di società. Non a caso molti giuristi vedono nell’articolo 11 anche un indirizzo di politica estera, che fa della nostra democrazia un motore di pacificazione, di composizioni diplomatiche dei conflitti, perché in ogni teatro di guerra la Repubblica riproponga la sua nuova priorità storica: l’eliminazione dello strumento bellico.

Ma il punto non è ripassare la Costituzione. Il punto è la storia. L’opposizione alla guerra non fu mai soltanto una posizione morale, di naturale e personale rifiuto della brutalità e della violenza armata, ma soprattutto un colossale atto di volontà, l’accesso corale a un nuovo livello di civiltà e di coscienza maturato nelle tragedie collettive come nella memoria personale e civile di ciascuno. Perciò è possibile dire che, dal dopoguerra in poi, ogni generazione che ha manifestato contro la guerra non ha fatto altro che riflettere sulla propria storia. Non le si opponeva solo perché la considerava un dramma, ma perché la considerava un dramma passato: «Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ed è il ripudio della guerra la vera vicenda di maggioranza italiana, la vera storia popolare, come testimoniato ancora oggi dalla stragrande totalità dei sondaggi, sempre molto poco raccontati, nei quali le persone si dichiarano contrarie al coinvolgimento diretto in nuovi conflitti armati.

Quello che accade oggi è il tentativo di scippare la storia. Questa storia. La storia popolare e concreta del discorso di pace viene rimossa, e intanto è la guerra a fingere un radicamento nei fatti, cercando ogni giorno di apparire necessaria alla luce degli eventi, per dimostrare di essere indispensabile e inevitabile. Il bellicismo è la sola realtà possibile, e a chi si oppone non rimane che il semplice rifiuto morale. Ma non c’è argomento più facile da superare. Tant’è vero che qualunque guerrafondaio oggi non avrà alcun problema a prendere le distanze dalla brutalità della guerra… Piacerebbe anche a me che non ci fosse, ma purtroppo… E allora nuove spese, nuove armi, nuovi fronti. Il propagandista lo sa: non sono più plausibili gli argomenti antichi, i patriottismi sanguinari o la nobiltà dell’eroismo in battaglia… ma confida che, se l’opposizione alla guerra diventerà man mano una forma di malinconia, allora potrà tirare la storia dalla sua parte e imporre le armi come unica soluzione ai conflitti nel frattempo scatenati, talvolta persino incoraggiati.

Abbiamo davanti anni così: il discorso di guerra, sostenuto da un potente apparato militare-industriale, guadagnerà tanto più spazio quanto più le maggioranze verranno ammutolite, quanto più cioè verranno staccate le radici storiche del discorso di pace. Da comunicatore, il mio timore è che questo taglio venga operato. Non si tratterà di indovinare uno slogan o una campagna. Bisognerà mantenere saldo il significato, le basi delle proprie ragioni. I paesi hanno diritto a difendersi? Certamente. Ma il nostro compito democratico è soprattutto promuovere ovunque il superamento del conflitto armato. Perché è da lì che veniamo. Dal ripudio. Se non daremo valore a questa Storia, ogni sentimento pacifico sarà destinato a essere niente più che un’opzione morale, così consegnandosi prima alla marginalità e poi all’irrilevanza. Il no alla guerra è scritto nella nostra vicenda collettiva. Esigere pace vuol dire continuare la nostra storia migliore. Serviranno nuove forme di militanza e di comunicazione per farlo e per dirlo.

Il testo è stato scritto per questa iniziativa della Fondazione Franceschi.

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