di Arturo Scotto
Ha ragione chi sostiene che il passaggio che ha portato alla proposta di ReArm Europe non è ordinario. Siamo in un tempo eccezionale e la discussione non può essere liquidata come una normale disfida tra pacifisti e guerrafondai, tra apocalittici e integrati, tra idealisti e realisti. Il manicheismo è sempre figlio della cultura della guerra: quella che ci ha condotto al suicidio della ragione e alla negazione del punto di vista altrui.
Abbiamo raggiunto da tempo l’età adulta e ci tocca fare i conti con la natura dell’Europa e il suo ruolo nel nuovo ordine mondiale fondato sul caos e la prepotenza. Va detto che l’America non da oggi offre “urbi et orbi” segnali di insofferenza verso il suo destino di poliziotto del mondo. Se la logica è quella degli affari, meglio dichiararlo apertamente, senza abbandonarsi a troppe perifrasi e soprattutto senza pagare eccessivi prezzi umani. Lo rivelano le cafonate di “Trump Gaza” così come l’espropriazione inquietante delle terre rare in Ucraina. Di conseguenza, ci sono guerre che si possono vincere senza muovere un soldato. Lo stesso Joe Biden alla vigilia della precipitosa quanto rovinosa fuga dall’Afghanistan fu brutale quanto concreto: «Io non manderò un’altra generazione di americani a rischiare la vita in Afghanistan senza una prospettiva, una missione chiara e definita».
Una revisione autocritica dei disastri inenarrabili della guerra al terrorismo inaugurata all’indomani dell’11 settembre, che delineava una ritirata strategica degli USA dagli scenari mediorientali nonché un ridimensionamento della sua tradizionale attenzione verso il teatro europeo. Ma anche la consapevolezza della chiusura di un ciclo di dominio incontrastato dinnanzi alla crescita di altri attori globali provenienti dal sud del mondo.
Per quanto risucchiata dentro la tragedia ucraina e spettatrice attiva della pulizia etnica a Gaza, la Casa Bianca non ha mai messo all’ordine del giorno i booth on the ground. Ha puntato sulla “procura” per fiaccare il nemico, costringere l’Europa a continui “stress test” sulla sua esistenza e rallentare qualsiasi soluzione diplomatica. Forse qui c’è un elemento di continuità molto più forte con Donald Trump di quello che noi stessi siamo disponibili a vedere.
Gli USA ci salutano, ma continuano a spiegarci come dobbiamo stare al mondo. La suggestione è che l’America torni “grande” – dentro il ripiegamento della globalizzazione accelerato dalla pandemia – solo con politiche protezioniste. Serve a poco continuare a fare il gendarme sostenendo quegli «scrocconi» degli europei; testuale quanto clamoroso aggettivo adoperato da Trump in uno dei suoi fluviali comizi durante la campagna elettorale.
Certo la politica estera della nuova amministrazione non lascia spazio alla rassicurante retorica del primato della democrazia sulle autocrazie. Non c’è l’ordine liberale da salvare anche a costo di doppi e tripli standard, ma semplicemente affari da preservare con le buone o con le cattive e una tregua del terrore stipulata tra potenze imperiali. Con un indebolimento degli organismi multilaterali che sono stati la garanzia principale della coesistenza pacifica. Trump esce dagli accordi di Parigi sul clima, abolisce l’agenzia Usaid per lo sviluppo e la cooperazione internazionale, minaccia di uscire dall’OMS, commina sanzioni alla Corte penale internazionale (procedura avviata per la verità sotto la presidenza dei democratici), considera l’Onu tutto sommato una perdita di tempo e avvisa l’Europa: se non ti allinei sulle spese militari a percentuali attorno al 3,5 del pil allora «bye bye» Nato. E con la guerra commerciale universalmente dichiarata: dall’Europa alla Cina, dal Canada al Messico.
Il trumpismo è spiazzamento continuo, guerra di movimento che destabilizza certezze granitiche sullo scenario geopolitico: mai si era vista in mondovisione un’aggressione così volgare e mafiosa nei confronti di un leader di un paese sovrano e fino ad allora alleato. Almeno, prima certe parole si sussurravano con le telecamere spente al caldo dello Studio ovale. Oggi la diplomazia sembra più che altro una puntata del Grande fratello. Il vero cambiamento è questo: gli interessi si nominano senza tabù, non sono più solo oggetto di allusioni edulcorate e digeribili per il grande pubblico.
L’Europa dice di volersi riarmare – su base nazionale – ma i due terzi dei suoi armamenti restano di provenienza americana. E continueremo a comprarli soprattutto da lì, anche perché non vengono previste condizionalità per i produttori. È il Financial Times che ci spiega candidamente che così va il mondo. Con tanto di grafici che andrebbero distribuiti – e forse tradotti – ai burocrati della commissione di Bruxelles: solo l’Italia in questi anni ha acquisito il 90 per cento dei prodotti militari dagli USA. Ma questo piccolo particolare va taciuto, perché questa strana guerra del bene contro il male si compie attraverso continue “censure democratiche”.
È così che il riarmo diventa un postulato, non una semplice possibilità della politica. E dunque non è sottoponibile a discussione: prendere o lasciare. Vale per il Parlamento europeo – unica fonte di sovranità popolare di un progetto largamente incompiuto perché intergovernativo – che non verrà interpellato probabilmente sul piano Von der Leyen. Normale: se devi riarmarti per salvare la democrazia, sei legittimato a sospenderla.
Vale anche per chi prova a spiegare che riarmare paese per paese non equivale a una difesa comune e che la prima vittima è inevitabilmente il modello sociale europeo. Che – attenzione – non significa solo welfare e diritti, ma anche e soprattutto coesistenza pacifica e democrazia. Perché società armate sono naturalmente più esposte a richiami autoritari.
Ma un establishment che ridefinisce la sua missione politica e, oserei dire ideologica, attorno all’economia di guerra spinge fuori chiunque nutra dubbi o avanzi critiche. Un riflesso conformista che sfiora il maccartismo nei toni usati verso chi si oppone: liquidato come imbelle se non addirittura come putiniano.
Oggi bisogna partire da questa verità durissima per ragionare su cosa accadrà nella politica europea e italiana. Si pretende un atto di fede, senza lo spazio per una riflessione autentica su che scenario futuro apre una scelta così drastica. L’emergenza Putin-Trump diventa il cavallo di Troia per derogare al patto di stabilità solo per acquistare armamenti, non per rafforzare coesione sociale e politiche industriali che accompagnino la transizione ecologica e digitale. Il sottotitolo è: arruolatevi. Tant’è che la Germania pensa persino a ripristinare la leva obbligatoria e anche dalle nostre parti questa idea si fa strada.
Si cita a sproposito Jean Monnet per dire che «l’Europa si è forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi», ma a nessuno viene in mente che quelle crisi possono produrre anche la crescita dei neonazisti in Germania perché in un trentennio le distanze salariali tra est e ovest sono rimaste elevatissime nonostante le promesse di progresso degli inizi degli anni ’90. Le crisi non sono mai neutrali, sono sempre figlie dell’aumento delle diseguaglianze. E forse una democrazia liberale si salva se riscopre la centralità della questione sociale come leva per evitare il collasso autoritario.
Ma affrontarlo appare troppo complicato o non corrisponde ai mondi economici e finanziari a cui rispondono oggi i principali dirigenti dell’Eurozona. Il riarmo viene visto invece come fattore anticiclico, il resto arriverà. E questa è anche la convinzione – ahimé – che anima una larga parte del socialismo europeo. Ad eccezione di Elly Schlein, che evocando un’opzione diversa finisce inevitabilmente nel mirino, solo perché non vuole mettersi l’elmetto.
Strano paese quello in cui un pezzo del suo establishment misura la caratura di una leadership sulla base dell’allineamento a una politica di riarmo nazionale, e non sulla difesa dei diritti di chi lavora e di uno stato sociale degno di questo nome. Ma tant’è. Non c’è bisogno tuttavia di scomodare il grande Hitchcock per sapere che se compare una pistola nella scena di un film, prima o poi un colpo parte. Come riarmo e guerra: in fondo sono parenti strettissimi. Prima o poi sono destinati a incontrarsi.