di Lorenzo Fattori e Raffaele Cimmino
La convocazione della piazza per l’Europa nata da una proposta di Michele Serra registra adesioni sempre più larghe. Per questo si pone più urgente la domanda: con quale obiettivo le tante e i tanti che aderiscono scenderanno in piazza?
Serra, inizialmente, ha chiesto di manifestare per un’Europa senza aggettivi, comprendendo la necessità di precisare che si tratta di manifestare per i “valori” europei.
Quindi si capisce che si manifesterà per l’Europa in sé, o meglio, per un’idea di Europa. Ma proprio qui nasce il rovello di chi vorrebbe fermarsi a riflettere. Esiste un’idea di Europa? Ovvero: esiste un minimo comun denominatore di “valori europei” che tenga insieme le persone sull’idea di Europa anche nella diversità di accenti, di idee politiche, di convinzioni sull’economia, sui diritti? Si potrebbe dire che c’è Europa e Europa. C’è l’Europa dei vincoli di bilancio, che per alcuni sono una buona cosa nonostante i danni che indiscutibilmente provocano (la Grecia sta lì a ricordarcelo); e c’è l’Europa della transizione verde, ormai messa in soffitta, o del Recovery plan, che ha consentito ai paesi europei di fare fronte alla crisi postpandemica. Il tema, quindi, è sicuramente più Europa, ma forse a essere dirimente è piuttosto il tema: quale Europa?
L’invocazione dell’Europa può servire a combattere lo smarrimento, la perdita delle certezze che la presidenza Trump, le sue dichiarazioni e i suoi atti concreti hanno provocato. In questo senso lo spirito dell’appello è ben comprensibile, e anche condivisibile. La proposta di una manifestazione per l’Europa andrebbe però qualificata, per evitare innanzitutto un rischio: che la manifestazione sia intesa come una protesta contro Trump, e contro chi è troppo accondiscendente con il presidente americano, leggi Meloni, finendo per offuscare tutto il resto. Oppure, il che sarebbe altrettanto grave, che diventi un momento a sostegno della necessità di riarmare l’Europa.
E qui non si può far a meno di notare uno scivolamento, nella riflessione di Serra del 6 marzo: la manifestazione non è più per “l’Europa”, ma diventa il prendere la parola per la difesa europea.
Non è un passaggio da poco e meriterebbe maggior riflessione.
Si chiede Serra, «che cosa difendiamo, difendendoci», e cita, tra le altre cose, pace, tolleranza, diritti, separazione dei poteri e stato sociale. Tutte cose che sembrano essere sempre meno presenti nell’Europa (e, per inciso, nell’Italia) di oggi.
Ma, come lo stesso Serra ammette, non quest’elenco non descrive ciò che l’Europa oggi è; ci sia concesso di dire che, anzi, tra queste parole c’è tanto a cui l’Unione Europea, negli ultimi anni, ha abdicato. Ne consegue che ci armiamo, dunque, per difendere ciò che abbiamo sempre di meno, e non perché qualcuno ce l’abbia tolto ma perché l’Unione Europea stessa non l’ha tutelato nelle sue politiche. Certo, oggi prevale in Europa lo smarrimento, che porta a credere che la corsa al riarmo sia l’unica soluzione, e a cedere alla più infelice propaganda (davvero la Russia è lanciata alla conquista dell’Europa? Davvero dopo l’Ucraina toccherà alla Polonia e ai paesi baltici coperti dall’articolo 5 del trattato Nato?). Ma un’Europa smarrita che reagisce in maniera scomposta ai diktat di Trump perché esclusa dalle trattative di pace, come del resto l’Ucraina stessa, non può pensare di salvarsi delegando ogni stato a riarmarsi, lanciando un’anacronistica economia di guerra che elude ogni necessità di integrazione e che addirittura, come si apprende da ultimo, decide il destino comune bypassando il Parlamento europeo, in spregio a quegli stessi princìpi che Serra ricorda come fondativi dell’idea di Europa.
Eppure oggi la risposta esclusivamente militare prevale e diventa senso comune. Il panico di fronte alle imposizioni di Trump dovrebbe invece lasciare il posto alla razionalità e suggerire che è arrivato il tempo di colmare il vuoto di politica e di diplomazia degli ultimi anni. E il principio primo della politica e della diplomazia è il realismo. Ha ragione Massimo Cacciari nel dire che la realtà impone di riconoscere finalmente che, pure con tutti gli aiuti possibili, l’Ucraina non può sconfiggere la Russia. Se invece l’obiettivo dell’Europa è proprio quello di sconfiggere la Russia, allora si tratta né più né meno che iniziare un conflitto con un paese dotato di un arsenale nucleare con tutte le conseguenze del caso: questo è bene saperlo.
Dunque, per cosa si tratta di andare in piazza? Se oggi Europa, e la manifestazione del 15 marzo, significa condividere senza riserve la proposta della presidente della Commissione, Von der Leyen, e ipotizzare un piano di riarmo di 800 miliardi che prevede una clausola di esclusione dai vincoli di bilancio, un apposito fondo dedicato, il ricorso alla BEI e addirittura l’utilizzazione dei fondi di coesione rimasti inutilizzati andiamo in una direzione preoccupante, che cambia completamente segno al progetto europeo. Che prelude a un’Unione europea piena alle frontiere (di soldati, di armi e di nemici), ma vuota al suo interno (di tutele, di opportunità, di speranza, di prospettive che non siano quelle del dulce et decorum est pro Europa mori). Un’integrale autonomia strategica europea, messa in questi termini, appare più che altro un pio desiderio. Si noti la contraddizione: si vorrebbe, ad esempio nel piano franco-inglese, una forza di interdizione europea su suolo ucraino in caso di tregua che però potrebbe realizzarsi solo con la garanzia di copertura americana. Un boots on the ground all’europea che può concretizzarsi solo con il beneplacito di chi vuole abbandonare l’Europa al suo destino. Si fa finta di ignorare che questa soluzione rappresenterebbe un’inaccettabile provocazione, perché darebbe corpo a una concreta avanguardia di quella NATO che la Russia non vuole ai propri confini. Si arriva da qui alla posizione estrema di chi spinge perché la guerra continui a oltranza e interpreta il ruolo europeo come destinato a un’entrata diretta nel conflitto ignorando il rischio di cadere nella catastrofe della guerra con una potenza nucleare.
Insomma, per essere veri europei bisogna accettare l’idea della guerra? Peggio: l’ineluttabilità della guerra? Ci sentiamo di dire a quanti nel nome dell’Europa parteciperanno che ci sono molte idee di Europa. Il modo più sbagliato di pensare l’Europa è quello del vaso di coccio che per farsi vaso di ferro accetta la logica delle armi e del confronto muscolare, interiorizzando quello che rimprovera ai Putin e ai Trump: piegare le relazioni internazionali alla logica di potenza, azzerare la diplomazia per affidarsi alla deterrenza bellica. Si dirà che questo l’unico modo per tenere in vita l’Europa, per evitare che, sguarnita dall’ombrello americano che si pensava fosse irreversibile, finisca schiacciata tra Atlantico e Urali. Questa scelta però non renderà l’Europa né libera né forte; al contrario, minaccia di vedere l’Europa dilaniata dai particolarismi nazionali, di mettere in sordina la democrazia e di aprire la strada, sacrificando la coesione sociale e il rilancio dell’economia, alle destre sovraniste.
Pensiamo, invece, che se c’è una buona ragione di scendere in piazza per l’Europa questa è chiedere di prendere una strada opposta rispetto a quella che si sta imboccando, che molto somiglia a quella scelta da quei sonnambuli che portarono l’Europa nel primo tragico conflitto mondiale poco più di un secolo fa. Se la storia insegna, non possiamo ripetere quell’errore. Nemmeno nel nome dell’Europa.