Diario del viaggio di Arturo Scotto in Egitto e a Rafah con una delegazione di parlamentari, giornalisti e rappresentanti delle principali Ong italiane che operano a Gaza. 3/
Rafah
Youssef arriva sotto la grande porta del valico di Rafah e chiama al telefono la sorella. Che è dentro Gaza a pochi chilometri da lì, a Jabalya. Youssef è palestinese, fa parte della nostra delegazione, rappresenta l’Ong Educaid e fino a qualche mese fa era dentro la striscia a lavorare per la cooperazione italiana. Parla un italiano fluente e vive attualmente a Rimini. Si è salvato dalle bombe perché non era a Gaza dopo il 7 ottobre ma tutta la sua famiglia è rimasta a vivere lì, intrappolata nell’apocalisse. La madre è morta durante i primi bombardamenti, il resto della famiglia ha visto distruggersi in poco tempo tutto quello che possedeva.
Youssef non trattiene le lacrime, resta davanti al valico per un’ora e mezza, fermo allo stesso posto. Riesce a parlare con altri tre amici che sono dall’altra parte del valico, perché finalmente funziona il suo vecchio numero di telefono palestinese. È il primo a scendere dall’autobus, l’ultimo a salire. La frase che pronuncia ripetutamente e senza sosta è forte, chiara e a tratti sfidante: io tornerò qui.
Al valico il sole spacca le pietre, il caldo ti avvolge e ti spossa, la fila dei camion che attendono di entrare è lunghissima. Il direttore dell’Urnwa di Gaza, Scott Anderson, americano, ci viene incontro, chiede di incontrare i parlamentari prima di parlare con i giornalisti. Ci ricorda che la giornata migliore per l’ingresso dei camion era stata il giorno prima: ne sono entrati quaranta. È una battuta ironica che restituisce quanto sia ormai fortemente compromessso tutto il sistema di aiuti. Sono numeri ridicoli, oggettivamente. Questi tir, prima di oltrepassare il valico, devono spostarsi a 15 km di lì, arrivare all’altro valico di Kerem Shalom in Israele, dove vengono ispezionati accuratamente, e poi rispediti di nuovo a Rafah. Dove possono aspettare anche settimane prima di entrare nella striscia.
Quando visitiamo l’hub dell’Ocha – sostanzialmente il mega parcheggio dei camion – veniamo circondati dagli autisti, come se stessero facendo un sit in di protesta. Vogliono parlare anche loro, non lasciare il microfono solo ai pur bravissimi operatori dell’Ocha. Sembrano fuori dalla grazia di Dio: sono spiaggiati da settimane, alcuni anche da più di un mese. Trasportano cibo in scatola, pacchi di farina, riso, coperte, casse di acqua, tende da campeggio.
Il minimo essenziale per campare, perché vivere è un’altra cosa. Ma la guerra non è solo morte e distruzione. È anche burocrazia cieca, fredda, arcaica. E, dunque, i tempi di vita della Striscia non corrispondono ai tempi di chi gestisce questo flusso di merci. E far aspettare significa esercitare il principio di autorità. Significa dire al mondo chi comanda. Chi può spegnere o accendere l’interruttore. In fondo l’esercizio del potere è questo: disporre della vita degli altri. E il blocco dei tir al valico di Rafah descrive esattamente questa condizione. Il problema è che in cinque mesi questa città è diventata il rifugio di un milione e mezzo di persone. I cui accampamenti – organizzati prevalentemente dall’Urnwa – non hanno i mezzi sufficienti per reggere l’urto dei bisogni di tanta umanità disperata.
Lasciamo Rafah e torniamo ad Al Arish a visitare il centro logistico della Mezzaluna rossa. Qui si stoccano le merci che non hanno passato il vaglio di sicurezza di Israele. Visitiamo un paio di capannoni e vediamo la quantità di aiuti che sono arrivati da tutto il mondo. Arabia Saudita, Kuwait, Germania, Francia, Australia, Indonesia oltre a ong come Oxfam. Sconcerta che tra i beni bloccati siano quelli salvavita.
Respinti anestetici, incubatrici per bambini, bombole di ossigeno, generatori, toilette chimiche, refrigeratori, depuratori d’acqua. E poi le ambulanze: ne autorizzano sette a settimana, mentre lì ne sono parcheggiate sedici, si lamenta Ahmed che ci accompagna nei depositi per conto della Mezzaluna.
Ecco, qui la domanda va rivolta non a Israele, ma agli Stati donatori. Come è accettabile un trattamento del genere? Per quale motivo si mandano beni fondamentali con i soldi dei contribuenti e l’impegno delle ong e questi non arrivano a destinazione? Parliamo di paesi con cui ci sono accordi di cooperazione o in ogni caso rapporti di buon vicinato da sempre. E che dovrebbero esigere rispetto e trasparenza. Perché almeno su questo punto non si esercita una pressione forte e pubblica su Netanyahu? Non siamo davanti ad armi di distruzione di massa. Siamo piuttosto davanti a armi di sopravvivenza di massa. Negarle rappresenta qualcosa di più di uno scandalo.