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Antifascismo, la parola che la destra non può dire

Miguel Gotor - La Repubblica
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Mario Rossi - La Repubblica

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Pubblicato su Repubblica

di Miguel Gotor

Il caso Scurati è emblematico perché rivela che quanti oggi governano l’Italia non hanno ancora risolto il loro rapporto con il fascismo e, di conseguenza, con l’antifascismo. Ciò è grave per due ragioni. Anzitutto dimostra che la presidente del Consiglio e Fratelli d’Italia hanno compiuto dei passi indietro rispetto a quelli fatti tra il 1994 e il 1995 da Fini, insieme con il decisivo contributo di Tatarella, ai tempi della nascita di Alleanza nazionale. L’allora leader della destra post-fascista scandì che era «giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenze che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato».

In continuità con questo ragionamento Fini l’anno scorso ha chiesto a Meloni di vincere la ritrosia a pronunciare l’aggettivo «antifascista». Perché di ritrosia bisogna parlare, che ricorda da vicino quella di Fonzie quando doveva ammettere di avere sbagliato. In secondo luogo, è ancora più grave se consideriamo che Fini era il delfino di Almirante, il fondatore del Msi, legato a doppio filo al fascismo storico.

Inoltre, per ragioni generazionali aveva vissuto negli anni Settanta gli scontri di piazza tra rossi e neri e aveva giovani camerati uccisi da piangere, spesso caduti letteralmente ai suoi piedi come ad Acca Larenzia nel gennaio 1978. Meloni invece è nata nel gennaio 1977 e, pur essendo fuori da quella vicenda storica (sia quella del fascismo mussoliniano, sia quella del neofascismo) non riesce – per un misto di calcolo elettorale e di inadeguatezza – a compiere quel salto politico, culturale e civile che avrebbe tutte le possibilità di realizzare.

Vogliamo essere chiari. Il caso Scurati è una spia del fatto che l’Italia rischia una deriva illiberale che non guarda al passato, né tantomeno, figuriamoci, al ritorno del fascismo, bensì alla democratura dell’Ungheria di Orbán di oggi. Proprio per questa ragione la polemica intorno al valore dell’antifascismo non è secondaria, ma costituisce un indice rivelatore dello stato civile dell’Italia e di quanti la governano. Infatti, per professarsi antifascisti non è sufficiente pronunciarsi contro le leggi razziali del 1938 e l’abominio della Shoah, ma significa condannare anche le violenze squadriste che accompagnarono l’instaurazione di un regime liberticida, i delitti di don Minzoni nel 1923 e di Matteotti nel 1924, la chiusura dei partiti e dei sindacati, la riduzione del Parlamento a un simulacro, la persecuzione degli oppositori rinchiusi nelle carceri e degli omosessuali mandati al confino, le guerre coloniali con l’utilizzo delle armi chimiche, l’alleanza con Hitler, la collaborazione sul suolo nazionale allo sterminio degli ebrei tra i campi di Fossoli e quelli della Risiera di San Saba e la cinica e sciagurata scelta della guerra con i nazisti.

La reazione di queste ore continua a essere opaca e strumentale, con una mescolanza di vittimismo e arroganza tipica, duole dirlo, sia della cultura fascista sia di quella neofascista. Ancora una volta l’alfiere famigliare di queste posture è il ministro Lollobrigida che si rifiuta di dirsi antifascista perché la definizione di «antifa» – così si è espresso – non è rappresentativa di tutti in quanto quel concetto «è troppo generico e purtroppo ha portato in tanti anni a morti» e per rafforzare le sue parole ha ricordato lo studente Sergio Ramelli, militante dell’organizzazione giovanile del Msi, «sprangato dagli antifascisti» a Milano e deceduto nel 1975.

Il ragionamento è semplice: dal momento che in nome dell’antifascismo militante ci sono stati dei morti negli anni Settanta, allora noi oggi non possiamo dirci antifascisti e condannare il fascismo storico del Ventennio. Si tratta di una confusione delle lingue e di una comparazione inaccettabili sia nel metodo sia nel merito tanto più se pronunciate da un ministro della Repubblica. Nel metodo perché è sbagliata la sovrapposizione tra i due antifascismi in quanto la storia non mescola mai fatti e tempi diversi, deve fuggire l’anacronismo e contestualizzare le cose come sono accadute. Nel merito poiché Lollobrigida finge di ignorare che, negli anni Settanta, la violenza armata dei giovani neofascisti è stata feroce: oggi sappiamo che, tra il 1969 e il 1975, la stragrande maggioranza delle azioni violente ebbe origine nel variegato mondo neofascista: tra il 1969 e il 1973 addirittura il 95 per cento degli attentati (1011 contro 50) che scesero al 61 per cento nel 1975. La violenza di sinistra, invece, subì una brusca impennata tra il 1976 e il 1977 e solo allora divenne prevalente rispetto a quella nera.

Ma non è neppure possibile tacere il ruolo svolto dallo stragismo neofascista proprio nell’anno in cui ricorrono i cinquant’anni della strage di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus. Per l’attentato di Brescia nel 2017 sono stati condannati gli esponenti di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, il quale era anche un informatore dei servizi e aveva militato nelle file del Msi. Una sentenza fondamentale nella storia dell’Italia repubblicana perché ha suggellato le responsabilità neofasciste nel periodo 1969-74, ma anche le collusioni con apparati e uomini dello Stato come riconosciuto dai presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella negli ultimi anni. In verità, la confusione delle lingue e la mistificazione della realtà storica del nostro Paese da parte di chi oggi lo governa è funzionale a nascondere che questa destra non ha solo un problema con il fascismo storico, ma soprattutto con il neofascismo degli anni Settanta e per questo fatica a dirsi antifascista.

Meloni ha recentemente visitato a Roma la mostra sul segretario del Pci Berlinguer ed è stato un gesto importante e apprezzato, ma l’aspettiamo a Palazzo Braschi dove è in corso una esposizione su Matteotti. Lo dovrebbe fare perché oggi non è il capo di una fazione, ma la presidente del Consiglio di tutti gli italiani.

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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