di Marcello Pollastri
Pier Luigi Bersani, ha nostalgia del Parlamento?
«Nessuna. Anni addietro era molto meglio. Ci si parlava… E avevi perfino l’impressione che, parlandosi, si potessero non dico cambiare ma almeno sfumare le rispettive posizioni. Poi la cosa è diventata inaccettabile. Ricordo che una volta dissi al presidente Fico: prova a misurare i decibel in Aula dieci anni fa e fallo adesso. Si grida, si strepita. Purtroppo oggi il Parlamento è diventato sempre di più un luogo di comizi rivolti all’esterno. Senza contare che non decide più a causa del ricorso abnorme alla decretazione. Tutto questo rende poco gratificante la vita del parlamentare. E poi…». Bersani si accende una sigaretta, la prima. E non l’unica della mattinata.
E poi?
«E poi a un certo punto arriva anche l’età in cui bisogna seminare e non più raccogliere. In fondo ci sono tanti modi di fare politica. Anche questo aspetto è stato all’origine della decisione di non candidarmi più».
Vuol dire che si sente meglio oggi nelle vesti di grande saggio?
«Padre nobile, grande saggio… Macché. Mi sento uno libero di dare una mano. Negli ultimi anni ho avuto un sacco di richieste da scuole e da giovani. C’è anche bisogno di questa funzione. Soprattutto le nuove generazioni hanno bisogno di confronto. E questo è motivo di grande soddisfazione».
Sente di frequente Elly Schlein?
«Ci sentiamo, ci messaggiamo. Guardi che secondo me viene sottovalutata».
Sembra una excusatio non petita.
«No, ma glielo voglio dire. Ci si è fatti di lei l’idea di una quasi solo orientata sui temi dei diritti. Ma non è affatto così. Certo, è una dirigente dei tempi moderni. Ma molto preparata su tutto. La realtà è cambiata, va vista con altri occhiali, lo dico sempre a chi si lamenta. Ed è cambiata anche la figura del leader».
L’ultimo consiglio che le ha dato?
«Le ho detto: prendi in mano il partito. Anch’io preferivo fare i comizi, le assemblee tra la gente e andare nelle fabbriche. Ma bisogna fare anche le riunioni di partito. Un partito vive di dibattto interno. E poi le ho suggerito di riformarlo. Vede, il Pd è nato diciamo con alcuni difettucci iniziali, come quello di immaginare che ci volesse un partito liquido per essere aperti alla società. Non è così. Ci vuole un partito strutturato dove gli iscritti contano e dove si riconosce la politicità delle autonomie culturali e sociali. Non necessariamente uno deve arruolarsi in un partito. Può farlo alla Caritas o in un sindacato. E poi si può trovare un terreno comune di valori. Guardi che anche i giovani chiedono che il Pd sia un partito solido. Che non è “passatismo” ma una cosa che guarda molto al domani. Questa è la sfida».
Sa che anche qui a Piacenza tra poco ci sarà il congresso del Pd?
«Non mi metto in questa discussione. Dico solo, in generale, che gli iscritti hanno bisogno di luoghi di dibattito. Il problema non può essere solo scegliere la leadership. Prima la discussione politica e la formazione di organismi non pletorici, poi l’elezione del segretario. Del resto fu proprio questa la mia polemica con Veltroni negli anni famosi. Sembrò “passatismo”, ma forse non avevo tutti i torti».
Senta, siamo abituati a vederla come politico, in Parlamento, alla tv, alle conferenze. Ma lei è stato anche piccolo?
«Altro che se sono stato piccolo».
Com’era da bimbo?
«Dovevo essere vivace perché mia mamma mi diceva sempre: “Meno male che sei stato il secondo perché se eri il primo non so se ne facevo un altro”. Ho passato un’infanzia molto bella, una famiglia meravigliosa. Mio fratello Mauro, un mito. Ho imparato tanto dai genitori ma moltissimo da mio fratello per la serietà e la sobrietà. E poi, va beh, fui quello che organizzò lo sciopero dei chierichetti… ero un tipo irrequieto».
In quella Bettola divisa. Lei era di San Bernardino, il “quartiere” proletario del paese.
«Verissimo. Era la parrocchia dove c’erano i pochi comunisti di Bettola, tutti lì in San Bernardino. Per dire, quando il Pci in Italia prendeva il 30%, a Bettola aveva il 13 o giù di lì. C’era una Dc fortissima, ma che aveva fatto la Resistenza, dunque interpretava molto bene il sentimento della gente. E io ero un giovane comunista in una famiglia e in un paese che aveva sempre votato Dc. Una volta Libertà scrisse di me che ero la “pecora rossa”. Si figuri che nella chiesa di San Bernardino c’era ancora fuori il cartello della scomunica per i comunisti. Ma non era minaccioso. In quella Bettola comunisti e democristiani si davano una mano, anche grazie alla saggezza di un grande parroco come don Vincenzo. Il compromesso tra la gente era arrivato prima di quello storico della politica. Cosa vuole, la forza dei paesi…».
Si sente ancora legato a Bettola?
«Sentimentalmente moltissimo. Di fatto però ci vado raramente, da quando non ho più i genitori e i suoceri».
Domanda di rito: aveva dei poster in camera?
«Poster no, ma le racconto. Quando morì Che Guevara misi sulla scrivania della mia camera una sua foto. Mia mamma, molto di chiesa, la vide e protestò. Per rabbonirla le dicevo: ma mamma, guardalo bene, non sembra Gesù?».
Bersani e lo sport?
«Poca roba. Ho fatto un po’ di atletica a livello studentesco, peso, disco, quelle cose lì. Mai giocato a pallone. Quando facevano le squadre in oratorio mi sceglievano per ultimo e mi mettevano a fare il terzinaccio. Chissà, devo aver spaccato qualche gamba».
Dunque: a casa sua votavano Dc e andavano in chiesa. La sua adesione al Pci fu un atto di ribellione?
«Cominciai a fare il mio percorso alle superiori, al Gioia. L’adesione al Pci avvenne nel 1972, ma già prima avevo fatto pratica di lotte studentesche anche in formazioni extraparlamentari. Senza essere troppo convinto alla fine entrai nel Pci per una esigenza morale. Al paese, Bettola, vedevo che ‘sti comunisti non andavano né in banca né a lavorare all’Enel. Facevano i muratori. E io sapevo che volevo stare dalla parte di questi ultimi».
È lì che nacque la sua passione politica?
«Me lo chiedono anche i giovani di tanto in tanto. Diciamo che sviluppai precocemente il senso del giusto e dell’ingiusto. Perché sennò a uno viene di fare lo sciopero dei chierichetti? Perché volevo pà equità nel meccanismo delle mance: perché pagare 5 lire per i funerali e 100 per i matrimoni? O perché sennò, quando guardavo i film, preferivo stare con gli indiani che non le giubbe blu? Avevo una visione: quella di stare in una compagnia di uguali».
Primo incarico serio: consigliere comunale di Bettola. Cosa ricorda?
«Intanto però ero già stato un “leaderino” al Gioia e all’Università. Facevo sempre il moderatore alle assemblee».
Non era timido, insomma?
«Non ero affatto timido. Non era facile parlare davanti a 400 persone con i prof schierati. Senta questa. Siamo a un’assemblea studentesca e c’era da fare lo statuto. La mia prima proposta fu quella di non concedere diritto di parola ai professori. Naturalmente fu bocciata. E poi una volta feci lo sciopero da solo. Non ricordo, forse perché si era rotto il riscaldamento. La Calderini, prof d’altri tempi, grandissima ma che t’impietriva con lo sguardo, riuscì a far rientrare tutti solo guardandoli uno a uno dai gradini. Rimasi fuori solo io e il giorno dopo disse: “Non vedo la giustificazione di Bersani”. Reclamai: “Ho fatto sciopero”. Lei glaciale: “Non mi risulta che ci fosse alcuno sciopero”. Ecco, diciamo che per questi miei comportamenti ribelli dovevo poi compensare con voti indiscutibili. Facevo il capopopolo ma poi portavo a casa gli otto. Sa, a casa erano ansiosi. Mio papà faceva il meccanico. Mi sono barcamenato così… Poi sì, a un certo punto mi candidai e feci il consigliere a Bettola. Eravamo in due in minoranza, nel ’75, giunta monocolore Dc».
Come andò?
«Sa quale fu la mia prima proposta? In quegli anni la Provincia dava fondi ai comuni per il consorzio di pubblica lettura, contributi e libri per aprire piccole biblioteche nei paesi. Non costava nulla. “Aderiamo”, proposi. Il sindaco di allora, Bergonzi, e la sua maggioranza lo bocciarono».
E per quale motivo?
«Pensavano che avrei portato i libri di Marx a Bettola. Avevano troppa paura».
Ho letto da qualche parte che qualcuna disse che al liceo era bello come Sean Connery. Era un latin lover?
«Mah, sì, dicevano che ero bello. Ma io più. che prendere il pullman presto e tornare al pomeriggio a casa a Bettola non facevo. Non che non pensassi alle ragazze, anzi ci pensavo anche molto. Ma combinare era altra cosa. Ero in prigione tra scuola, pullman e casa. Non c’erano occasioni».
A un certo punto la sua carriera decolla. È il 1980. Quel giorno viene eletto consigliere regionale. Eppure alla sera c’era il concerto di Bob Marley a San Siro. Non poteva proprio rinunciare?
«Ma siamo matti? Guardi sarà un caso ma la mia vita è stata scandita dai concerti. Quel giorno c’era l’insediamento del consiglio regionale dove ero stato eletto a 28 anni, una bella soddisfazione. Ma avevo il biglietto per Bob Marley alla sera. Andai a Bologna e seppi solo dopo che, per una rottura tra Pci e socialisti, avevano deciso di fare una giunta tutta Pci e che veniva scelto un assessore per provincia. Insomma, venni nominato assessore. Ma ero talmente eccitato per il concerto che presi al volo l’ultimo pullman per Milano. Arrivo a San Siro, un mare di gente, 80 mila persone. Fiutavi hashish dappertutto. Erano tutti smandrappati e io erò lì elegante. Feci in tempo a levarmi la cravatta, ma ero anche già un po’ pelato e mi scambiarono per un questurino. Quando passavo vedevo la gente che metteva via la pipa. Ma che concerto! Fantastico. L’ultimo che Marley fece in Italia prima di morire».
E quella volta con i Guns N’Roses?
«Forte. Sono il presidente di Regione e devo fare la giunta: mi ero messo in testa una mezza rivoluzione, volevo ridurla. Suscitai un vespaio. A un certo punto, nel pieno della bagarre durante una riunione, esco e trovo due tre giornalisti. Dico loro: scrivete quel che volete, am io vado a vedere i Guns. Il giorno dopo Repubblica titola: “Rose e fucili per Bersani”. Alla fine però la spuntai. Ridussi la giunta e feci quel che volevo. Poi ci fu quella volta degli Ac/Dc a Casalecchio che Prodi mi chiese di fare il ministro».
Racconti.
«Ero stato eletto solo da un anno presidente di Regione. Dissi: ragazzi, se c’è da rivotare dico no. Se si può mettere un altro presidente ci penso. Riunirono fior di costituzionalisti una notte per capire come regolarsi, era la prima volta che accadeva. Ma quella sera c’erano gli Ac/Dc, fantastici. La mattina dopo fui informato che ero ministro da un amico di Bettola che mi telefonò».
Cosa ci dice della grande passione per Vasco?
«Vasco non l’ho mai mollato. Quell’uomo ha una straordinaria generosità. Una volta, ero ministro, mi chiamò uno dalla Sardegna. Mi disse che c’era una sua parente su una sedia a rotelle che aveva come desiderio quello di conoscere Vasco. Feci di tutto per farglielo incontrare a un concerto a Firenze. Vasco accettò. Fu un grande momento. È stato anche molto disponibile quando gli chiesi di poter usare una sua canzone per la mia campagna elettorale delle primarie nel 2009 (“Un senso”). Ho sempre pensato che fosse un terapeuta per le giovani generazioni:le sue canzoni ti entrano in testa come una pallottola grazie a un linguaggio molto efficace».
E con Guccini?
«Lui è un poeta. Una volta lo chiamai dopo aver letto un suo fantastico libro. Nella chiacchierata scoprimmo di avere entrambi le nonne originarie di Campremoldo Sopra. Capito? La nonnadi Guccini, come mia nonna Cesira, era di Campremoldo Sopra. Non ci credevo. Le ho dato uno scoop».
Torniamo al concerto di Marley e all’odore di hashish. Ma lei, in confidenza, una canna se l’è mai fatta?
«Mai. Ho avuto la fortuna, si fa per dire, di fumare fin da ragazzo di nascosto sigarette senza filtro piuttosto aspre e secche. Quindi anche sentire l’odore dolciastro delle canne non mi è mai piaciuto. Io ho fumato Stop senza filtro, Gauloises, poi il toscano: Erano gusti totalmente alternativi».
Proibizionista?
«No assolutamente. Non facciamo gli ipocriti, gli spinelli si trovano dappertutto».
Oggi andrebbe più a un concerto dei Pinguini tattici nucleari, dei Maneskin o di Toni Effe?
«Sarei curioso di andare dai Maneskin perché il mio gusto resta ancora quello, il rock».
Perché qualche anno fa fu costretto a mostrare i suoi voti all’Università? Tra l’altro tutti 30 e lode, tranne un 28. Come mai quello scivolone?
«Sì vero. Ma quel 28 è stato l’unico esame di gruppo, giuro. Le spiego del libretto. Ero segretario del Pd e andai a portare la mia solidarietà a un gruppo di studenti di architettura che avevano occupato la facoltà, a mio parere giustamente. Torno in Aula e l’allora ministra Gelmini mi dà del ripetente. Chiesi la parola per fatto personale. La informai che nel giro di mezz’ora sarebbe stato in rete il mio libretto e le dissi che mi sarei aspettato che lei facesse altrettanto. Non lo fece. Va bene tutto, ma non toccatemi sul profitto scolastico. Farmi dare del ripetente dalla Gelmini, anche no».
Cosa avrebbe fatto se non avesse fatto il politico?
«L’insegnante. Un mestiere più bello e importante non c’è. Un po’ lo feci da precario. Ma ancora adesso mi piace spiegare e trasmettere qualcosa ai giovani».
Esistono gli amici in politica?
«Eccome. Ma non mi faccia fare nomi».
Si può dire che il suo nome sia tra i grandi della sinistra moderna con Veltroni, D’Alema, Prodi. A chi è più legato?
«Ho rapporti buoni con tutti, ma ho fatto molta più strada con Prodi, poi con D’Alema e poi con Veltroni. Ho stima e amicizia per tutti e tre, ma vedo anche i difetti, come del resto ne ho io. Ma posso garantire che sono tutte persone a posto».
Anche quando Prodi ha tirato i capelli alla giornalista?
«Ma su dai, ha fatto il nonno, lo capisce un bambino. L’aveva appena strapazzata e poi le ha fatto un buffetto. E ci hanno fatto su tutto questo teatrino. Gliel’ho anche detto scherzando, ma non puoi fare il nonno».
L’ultima cosa che ha detto è stata: «L’Italia bacia la pantofola in politica estera». Ma come inventa le metafore?
«Non le invento, tengo l’orecchio a terra. La metafora a cui sono più affezionato è quella di mia nonna Cesira che era bracciante, figlia di braccianti, vicino al Po. Allora le ragazzine facevano le spigolatrici e le sartine. Per dire che di una cosa ce n’era molta, mia nonna usava l’espressione: “Ce n’è da fare l’orlo al Po”, rigorosamente in dialetto. C’era dentro una vita. Quella della mucca? La disse mio padre, per uno che non vedeva niente diceva: “Non vedi nemmeno una mucca nel corridoio”. Quella del “pettinare le bambole” invece non mi ricordo. Ma se tu frequenti, ascolti la gente, capisci le terre… impari tante cose».
Dica la verità: ha fatto di tutto in politica, non le scoccia non aver fatto il presidente del Consiglio quando era a un passo nel 2013?
«Mi scoccia molto. Il potere in fondo cos’è se non tradurre in fatti quello che hai in testa? E lo puoi fare se governi. Tra l’altro, pronti via avrei fatto subito lo Ius soli, già al primo Consiglio dei ministri. Quattro righe da approvare e via. Ragazzi, firmate. Nessuno avrebbe detto no. Poi se mi mandavano a casa,. amen. Ma se oggi ci fosse lo Ius soli sarebbe un’Italia più logica, civile, normale».
Ce l’ha ancora con Grillo?
«Ma figuriamoci. Grillo me ne ha fatte di cotte e di crude. Una volta mi chiamava… (Qui Bersani non ricorda e chiede aiuto alla moglie Daniela Ferrari) ah sì, mi chiamava Gargamella, quello cattivo dei Puffi. Mi guardo allo specchio e dico: va beh, ma non ha tutti i torti. Quei 5 Stelle erano un movimento che conteneva di tutto. Io non volevo un’alleanza. Gli volevo proporre: fatemi partire, tenetemi. Vi farò vedere… avevo in testa anche altre due o tre “lenzuolate”. Magari mi avrebbero “segato” alle camere, però sarebbe stato chiaro che il Pd ci aveva provato. E questa testimonianza l’ho voluta lasciare nel famoso streaming. Cioè che erano loro a dire no».
Meglio Berlusconi, Salvini o la Meloni?
«Berlusconi almeno era un liberale immaginario. Un duopolista che se la dava da liberale. Non lo era, ma faceva finta. Questi non fanno neanche finta, vanno giù col badile. Siamo in una situazione dove vengono messi in discussione i capisaldi liberali. C’è la tendenza a far slittare i poteri verso l’esecutivo possibilmente plebiscitato. Chi ha i voti, comanda e basta».
Quella volta che sentì il bisogno di andare a trovare Berlusconi al San Raffaele?
«Mi venne d’istinto. Chiesi a Gianni Letta se fosse gradita la mia visita. Rispose ok. Mi aveva impressionato averlo visto ferito in quel modo. Rimasi in ospedale una mezz’oretta con lui. Lui, poi, raccontandola a modo suo, disse che io gli avevo preso la mano. Ma era lui che me l’aveva presa e me la tenne anche un bel po’. Fu una chiacchierata affettuosa. Poi quando esco una vecchietta elegante mi fa: “Ecco voi comunisti! Prima lo massacrate e poi lo andate a trovare!”. “Guardi signora – faccio io – il presidente sta bene”. E lei: “Grazie grazie!”. Quanti fenomeni di innamoramento esistono… Personaggio impossibile da replicare. Sa cosa mi disse una volta Montanelli?».
Cosa?
«Quando divenni ministro nel 1996, Montanelli voleva conoscerci un po’ tutti. Ci vedemmo in una trattoria a Milano. Avevamo appena vinto le elezioni ma disse: non ve ne liberate facilmente di Berlusconi, perché c’è una differenza tra voi e lui. Voi sapete la differenza tra verità e bugia. Per lui la bugia è una verità».
Com’era Montanelli visto da vicino?
«Beh in quell’incontro gli dissi che mio suocero era molto liberale e che mi costringeva a leggere tutti i suoi articoli. Così lui alla fine del pranzo prese un biglietto e mi chiese come si chiamasse mio suocero. Gino, faccio io. E scrisse: “Stia tranquillo Gino, che suo genero è un bravo ragazzo”».
Provi ad annusare l’aria. Cosa vede nel 2027?
«Siamo dentro a un salto secolare. Si è sempre pensato che ci fosse un imparentamento tra sviluppo tecnologico e crescita dei diritti sociali, l’idea alla base del progressismo. Adesso si affaccia l’ipotesi che l’ipertecnologia si imparenti con una regressione dei diritti. Lo vediamo in parte con Trump e Musk, ma non solo. Le potenze vogliono afferrare le nuove materie prime per la tecnologia, una sfida che non guarda in faccia a nessuno. Sta tornando il colonialismo, dobbiamo dire le cose con il loro nome».
E qual è per lei la chiave?
«Reagire. Con un patto tra la sinistra sociale, il personalismo della religione e un presidio liberale. Bisogna snidare i liberali che ci sono in questo Paese. E ripristinare il modello sociale: fiscalità progressiva, alti livelli del lavoro e welfare universalistico».
Perché non ha mai pensato di fare il sindaco di Piacenza? Ma non gliel’hanno mai chiesto?
«Me l’hanno chiesto qualche volta ma ho declinato. Ho fatto vent’anni l’amministratore, anche basta».
Tra poco è il 25 aprile: per l’ottantesimo quale sarà il messaggio?
«La Liberazione ci ha dato questa Costituzione. Quando si minimizza il contributo della Resistenza, va ricordato che dei tre paesi che hanno perso la guerra siamo stati l’unico a farsi da solo la Costituzione. La gente la vede davanti perché ha dentro promesse che vanno mantenute».
Che padre è stato per le sue figlie?
«Con dei sensi di colpa per uno che è sempre via. Ma da come sono cresciute è possibile che abbia contribuito anch’io. In qualche modo penso di esserci stato».
E da qualche anno è anche nonno.
«Sì, Giulia. Una meraviglia. A fare il nonno misuri l’invecchiamento. Stare dietro a un fulmine di questa forza, indomabile, ti mette a volte anche a dura prova. Adesso ha cinque anni e per fortuna un po’ si è calmata».
Bersani, lei crede in Dio?
«Ho sempre adottato una massima di Albert Camus che diceva: “Io non credo ma considero l’irreligiosità la più grave forma di volgarità. Capisco molto la religiosità. La fede è un dono. Se viene meno questo…».