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Diario dal confine di guerra: cessate il fuoco o disastro umanitario 1/

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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Diario del viaggio di Arturo Scotto in Egitto e a Rafah con una delegazione di parlamentari, giornalisti e rappresentanti delle principali Ong italiane che operano a Gaza. 1/

Il Cairo

C’è una sola parola che ritorna sempre: prima di tutto il cessate il fuoco. Altrimenti c’è solo l’impotenza, il ridimensionamento degli effetti di qualsiasi azione umanitaria e la cronicizzazione di una crisi che si è ormai aggrovigliata su se stessa. Che non fa più notizia, anche se a oggi miete oltre 30000 morti, 70000 feriti e almeno diecimila dispersi, di cui oltre due terzi donne e bambini.

Ce lo dicono tutti i nostri interlocutori che incontriamo nel quartiere Zamalek al Cairo con una delegazione amplissima di parlamentari, ong, associazioni e giornalisti. Siamo in cinquanta dall’Italia, probabilmente il più grande gruppo internazionale che sia andato in missione in Medio Oriente dal 7 ottobre. In un giorno in cui falliscono per l’ennesima volta i colloqui per la tregua tra Israele e Hamas, sotto la supervisione di Qatar, Egitto e Stati Uniti. Proprio in questa megalopoli, in un qualche luogo segretissimo di questa città immensa, caotica e insonne.

 

L’Aoi, che ha organizzato per mesi questa visita, ci accoglie con Ilaria Masieri e Alfio Nicotra valorizzando il messaggio di solidarietà non scontato che proviene dai parlamentari di Pd, Avs e M5S presenti all’iniziativa: le istituzioni ci sono e provano a squarciare il velo di una solitudine che in questi mesi il mondo della cooperazione nei luoghi di guerra ha vissuto in maniera drammatica.

Solitudine perché davanti a una crisi così duratura i progetti nella Striscia e in Cisgiordania sono nei fatti congelati e il racconto sul campo è solo militare, dimenticando la presenza di migliaia di coraggiosi operatori che sono rimasti a fare il proprio dovere nonostante le bombe, le privazioni, i morti, le malattie, la fame.

L’Egitto non è la periferia della crisi, ma l’epicentro inevitabile di tutti i suoi effetti collaterali: è la porta di accesso degli aiuti umanitari – che passano a singhiozzo per il valico di Rafah da cinque mesi – ma è anche il luogo in cui fuggire dalla guerra, il teatro in cui i rifugiati di Gaza possono pensare di salvarsi dalla trappola mortale.ong

Colpisce il racconto di Xavier Doncell ed Hellen Patterson di Medici senza Frontiere: dieci giorni fa hanno distrutto un loro ambulatorio con due morti e sette feriti. Pensavano di essere al sicuro, essendo una ong che attraversa da decenni tutti i teatri di guerra e premio Nobel per la Pace. Ma a Gaza non esistono zone franche e i loro volontari – di cui 70 sono palestinesi – ormai sono allo stremo. Operano nella zona di Rafah, non sono più al nord della striscia da tempo e ne ignorano le condizioni. Quello che raccontano è la fine di qualsiasi forma di assistenza sanitaria che riesca a fare fronte alla quantità immensa di feriti causati dai bombardamenti dell’artiglieria israeliana. È impossibile fare un calcolo, dicono. Impossibile prevedere l’impatto che avrà sulla salute dei civili l’assenza totale di acqua potabile e la malnutrizione diffusa che porta Issam Younis, Direttore di Mezan center for human rights, lui stesso rifugiato in Egitto da due mesi, a dire che ha dovuto procacciare cibo per animali per far mangiare la sua famiglia.

I numeri del disastro umanitario li dà il direttore del Palestinian Medical Relief di Gaza, Aed Yaghi: sono rimasti 8 ospedali su 36 a Gaza a funzionare, peraltro a scartamento ridotto, e gli ambulatori capaci di garantire cure di primo livello sono rimasti meno di dieci su 78. Dall’inizio del conflitto sono 342 i medici feriti o addirittura uccisi, 100 quelli arrestati o fermati, 106 le ambulanze distrutte o danneggiate: non esiste in parole povere più alcun sistema sanitario. E, dunque, anche i dati sui pazienti sono inevitabilmente approssimativi, perché come afferma Msf, è tecnicamente impossibile tracciare l’entità del disastro: il 16 per cento dei bambini soffre di grave malnutrizione, 265000 sono le persone affette da infezioni all’apparato respiratorio, 210000 i casi di diarrea, 70000 le malattie della pelle, 80000 i casi di epatite A dovuta ovviamente a promiscuità, condizioni igienico sanitarie minime, acqua non potabile.

A questi si aggiungono oltre trecentomila malati cronici (diabetici, oncologici, cardiopatici, ipertesi) il cui ciclo di cura è totalmente saltato in aria. In parole povere, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità, dove non uccidono le armi, ci pensano le malattie: il colera viene considerata un’epidemia altamente probabile qualora dovesse continuare l’assedio a Gaza per altri mesi.

“Se dieci anni fa mi avessero detto che Gaza si sarebbe ridotta così, la mia risposta sarebbe stata: è impossibile”: attacca così Omar Greiebm rappresentante palestinese di Oxfam a Gaza. Sono ancora in trenta gli operatori dell’Ong nella Striscia che hanno negli ultimi mesi attrezzato piccoli impianti di desalinizzazione per garantire la trasformazione dell’acqua di mare in acqua potabile, ma sono allo stremo. Un milione e ottocentomila persone non vive più nelle proprie case e il 50 per cento delle infrastrutture sono state distrutte: su Rafah preme una massa enorme di esseri umani stretti in un fazzoletto di terra, profughi a pochi chilometri da casa perché le loro case sono inagibili o devastate.ong

Basel Alsourami, esponente di una ONG dei diritti umani, ci dice che dopo i crimini russi in Ucraina e il sostegno internazionale alla Corte Penale Internazionale si sarebbe aspettato un analogo atteggiamento degli stati democratici nei confronti del Governo di Israele. Cita gli “statement” più clamorosi del ministro della difesa Gallant, che aveva usato il termine “animali umani”, o di Nethanyahu secondo cui non esistono civili a Gaza. E invece si è affermato un doppio standard: davanti alla richiesta di prevenire il genocidio avanzata dall’Aja la risposta è stata un indebolimento dell’autorevolezza della Corte e della sua immagine internazionale. Alsourami non si nasconde dietro le parole: la crisi di Gaza ha sdoganato nelle cancellerie occidentali un uso discriminatorio del diritto internazionale e la certificazione di un doppio standard davanti alle gravi violazioni dei diritti umani. Parole che fanno male.

Il dramma decennale del conflitto israelo palestinese, le migliaia di morti e feriti a Gaza e in Cisgiordania, la tragedia di centinaia di ostaggi ancora nelle mani di Hamas ci dicono che la politica si è totalmente ritirata. Ha lasciato lo spazio alla rassegnazione della guerra. Ma non esiste alcuna possibilità che questo conflitto cessi se non c’è una ripresa della centralità delle istituzioni sovranazionali e dei suoi strumenti umanitari e giurisdizionali che invece sono stati indeboliti e talvolta criminalizzati.

Andiamo in serata all’ambasciata italiana che ha lavorato per settimane per farci avere i permessi di ingresso nel Sinai per poter raggiungere il Valico di Rafah. Da mesi i nostri diplomatici, guidati dall’ambasciatore Michele Quaroni, sono il terminale dell’organizzazione degli aiuti umanitari che vengono dall’Italia portati da ong e istituzioni, oltre ad aver supervisionato l’arrivo della Nave Vulcano ad Al Arish e di cento bambini palestinesi curati poi negli ospedali italiani. Domani al Cairo incontreremo Urnwa e Ocha ed altre agenzie delle Nazioni Unite per un briefing mattutino.

Poi il lungo viaggio verso il Sinai in autobus con tre check point da attraversare prima di arrivare ad Al Arish, l’hub da cui partono i convogli umanitari per Gaza.

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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