Diario del viaggio di Arturo Scotto in Egitto e a Rafah con una delegazione di parlamentari, giornalisti e rappresentanti delle principali Ong italiane che operano a Gaza. 2/
Dal Cairo ad Al Arish
A un certo punto della mattinata si è materializzata la pietra dello scandalo. Si chiama Urnwa, l’organizzazione dei rifugiati palestinesi che opera da oltre settant’anni a Gaza, nella West Bank, in Libano, Siria e Giordania. Eppure – a sentire le parole dei dirigenti delle agenzie che abbiamo incontrato – si scrive Urnwa e si legge Onu. Perché l’attacco è a tutto il sistema delle Nazioni Unite, alle istituzioni multilaterali e alla loro dimensione diplomatica.
La mattinata a Zamalek è dedicata dunque al confronto con le agenzie umanitarie che stanno sul campo, dall’Oms all’Onu, dall’Urnwa alla Mezzaluna rossa egiziana. Il giudizio unanime è che la parola “catastrofe” è insufficiente per descrivere lo stato di Gaza oggi. E si partiva da un quadro comunque tutt’altro che felice: un sovraffollamento del territorio, tassi di disoccupazione giovanile che sfioravano il 70 per cento, la povertà all’80 e un tasso elevato e crescente di suicidi.
Per il direttore dell’Oms Richard Brennan il numero degli accessi umanitari è largamente insufficiente, il 65 per cento delle infrastrutture civili sono distrutte o gravemente danneggiate, crescono gli assalti ai pochi camion di beni e viveri, talvolta anche sotto regia criminale. E fa un appello: l’obiettivo di liberare gli ostaggi non ha nulla a che fare con la distruzione dell’Urnwa. “Se saltano loro, sarà il caos, fidatevi”: questa la sua previsione senza appello.
Con l’Urnwa lavorano 23000 addetti, 13000 sono quelli a tempo indeterminato: sono nell’occhio del ciclone perché 12 di loro avrebbero partecipato ai criminali attacchi di Hamas. L’Italia ha sospeso il contributo, l’Ue solo l’altro ieri lo ha sbloccato per 50 milioni dopo mesi di indecisione. Nethanyahu vuole chiuderla subito e sostituirla non si sa con che cosa: sicuramente non con un’operazione a guida Nazioni Unite. D’altra parte l’obiettivo esplicito è cancellare un’anomalia: è l’unica agenzia interamente dedicata a un popolo di rifugiati ed è dislocata in quattro paesi. Chiudere loro, insomma, significa normalizzare agli occhi del mondo la condizione palestinese.
Sahar Al-Jobury, direttrice dell’Unrwa Office in Egypt e Adan Abu Hasna, Media Advidor Unrwa Gaza, ci dicono subito che non si stanno piangendo addosso, nonostante il discredito internazionale e le perdite di molti funzionari: lo staff dell’Urnwa conserva grande resilienza, gestiva 300 strutture di servizi pubblici ormai quasi interamente distrutte, per quanto ormai da mesi abbiano dovuto limitare al massimo le missioni nel nord di Gaza. Condannano gli orribili attacchi di Hamas, specificano che il 90 per cento della popolazione civile non ha nulla a che fare con le istituzioni politiche della Striscia. Sono molto netti su un punto: loro assistono ancora un milione di persone, si occupano di ogni esigenza dal cibo alle cure, dall’assistenza psico-sociale all’attività ricreativa dei bambini.
Ma le loro strutture sono ormai allo stremo. Sono dieci secondo l’Unicef i bambini morti per disidratazione e malnutrizione dall’inizio del conflitto. Le scuole dell’Urnwa ospitavano 300000 bambini, nei programmi scolastici mettevano al centro la democrazia e i diritti umani, facevano persino votare un parlamentino degli studenti. Loro dicono: siamo la spina dorsale dell’assistenza umanitaria a Gaza, senza di noi si aprono le porte a una crescita dell’estremismo con il rischio di una presa popolare anche dell’Isis. Un messaggio inquietante.
Gaza è il turning point della stabilità in Medio Oriente, citando un colloquio di dieci anni prima con Colin Powell: lo ricorda il capo di Ocha in Egitto, Amani Salah. Ci fornisce un dato sui camion in ingresso al valico di Rafah: sono solo 60-70 al giorno. Ne servirebbero 500 al giorno per garantire il minimo sindacale, ma sono numeri impossibili da raggiungere senza il cessate il fuoco. Aggiunge – e lo conferma più tardi anche il capo della Mezzaluna rossa egiziana Lofty Gahit – che il meccanismo dei controlli dei camion è farraginoso, Israele può far attendere anche 30 giorni per visionare le merci e gli uffici dal lato israeliano fanno orari di ufficio dalle 9 alle 17 all’altro valico di Kherem Shalom, quello dal lato israeliano dove si fanno le ispezioni dei carichi.
Con il ripetersi di episodi che rappresentano un impasto di cinismo e burocrazia: una fornitura di croissant al cioccolato lasciati fuori dal valico per settimane in quanto considerato un bene non necessario. Un dispetto bello e buono.
Ma il problema è che non arrivano nemmeno quelli che universalmente sarebbero ritenuti fondamentali: dalle pastiglie di purificazione delle acque inquinate ai sacchi a pelo (ormai sono centinaia di migliaia le persone che vivono senza un tetto sulla testa), dai frigoriferi ai generatori per gli ospedali. Persino i gabinetti: l’Urnwa ci spiega che a Rafah nei campi allestiti per i rifugiati sono 1 ogni 400 persone, quando la media nelle strutture di accoglienza è 1 a 20. In questo dato, che può per molti aspetti apparire laterale, vive il cuore della bomba più pericolosa che incombe su Gaza: l’esplosione di una emergenza epidemiologica. Che potrebbe – qualora non ci fosse un cessate il fuoco permanente – generare 8
5000 morti per malattie. Una stima spaventosa che mette d’accordo Oms, Urnwa e Ocha.
Alle 12.30 lasciamo Il Cairo e ci mettiamo in moto con l’autobus per raggiungere Al Arish dove pernotteremo: è l’hub principale dei camion che portano gli aiuti, ma anche la capitale del Sinai del Nord che qualche anno fa fu colpito da un terribile attentato dei jihadisti che fecero 300 morti in una moschea Sufi. Si prevede di arrivare alle 18.30 ma dobbiamo superare tre check point, il primo dei quali serve ad attraversare il tunnel sotto il canale di Suez – con apposita scannerizzazione del nostro pullman. Ci fanno scendere e procedono all’operazione facendo entrare il mezzo in un gigantesco cubo aperto attraverso cui si verifica se non abbiamo esplosivi o armi con noi. Dopo mezz’ora ci fermano a Port Said: e qui il controllo dura addirittura due ore perché a verificare i nostri passaporti sono contemporaneamente servizi, polizia ed esercito. L’attesa si prolunga perché aspettiamo una scorta armata che ci condurrà nella notte del deserto del Sinai fino a destinazione.
Usciti dal check point ci attende una fila lunghissima di camion – molti dei quali con doppia bandiera, turca e palestinese – che aspettano per giorni il permesso per proseguire. Saranno almeno cinquecento. E siamo soltanto a tre ore di auto da Rafah. Dove le agenzie umanitarie confermano che sono bloccati circa 1500 camion in attesa di entrare. Nel frattempo al di là del valico si combatte per un pugno di farina in più. Ma questa è la storia di domani.
Leggi qui il precedente articolo