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Ferrari: il testamento di Mahmoud, vittima del cinismo

don Mattia Ferrari - La Stampa
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Mario Rossi - La Repubblica

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Pubblicato su La Stampa

di don Mattia Ferrari

«Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti»: questo il richiamo lanciato da Papa Francesco all’incontro del Mediterraneo a Marsiglia nel settembre scorso. L’ultimo naufragio in ordine di tempo è avvenuto giovedì scorso, sulla rotta tra la Tunisia e l’Italia. Il bilancio tra morti e dispersi supera le 40 vittime. Grazie a realtà come Refugees in Libya, che svolge un grande lavoro di vicinanza e sostegno ai loro familiari e amici, e a reti che la supportano, le storie e i volti di quelle vittime vengono scoperti e raccontati. Tra queste storie, c’è quella di Mahmoud Muhammad Haroun Adam.

Mahmoud nasce nel 1999 a Nyala, nel Darfur meridionale. Nel Darfur da più di 20 anni si combatte una guerra sanguinosa, intervallata da trattati di pace che purtroppo non hanno resistito davanti alla violenza. Mahmoud cresce in una famiglia numerosa, ha 11 sorelle e 7 fratelli. Cresce con il desiderio di contribuire alla pace e inizia a collaborare con iniziative che la promuovono. Si iscrive all’Università Al-Zaim Al-Azhari di Khartoum per studiare Management ed Economia. Suo padre lavora nell’agricoltura, ma la catastrofe ambientale e il cambiamento climatico prodotti dall’attuale sistema socio-economico globale rendono sempre più difficili i lavori agricoli, specialmente in quelle aree: la desertificazione avanza in tutta quella grossa striscia di terra africana nota come Sahel.

La famiglia di Mahmoud inizia così a trovarsi in difficoltà finanziare. Per giunta circa dieci mesi fa, a metà aprile del 2023, si raccendono i violenti scontri nel Paese. Il conflitto in Darfur è anch’esso legato in parte alla catastrofe climatica: nel 2017, l’ex Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon aveva descritto la guerra nel Darfur come «una crisi ecologica, derivante almeno in parte dal cambiamento climatico». Gli scontri raggiungono un’escalation tale che l’Università viene chiusa e le agenzie umanitarie dell’Onu sono costrette a ritirarsi.

Mahmoud, che vuole sostenere la sua famiglia e impegnarsi per la pace, capisce che non ha altra scelta che lasciare il Sudan. Inizia così il suo viaggio migratorio. Il 15 agosto scorso Mahmoud arriva in Libia, un’altra terra devastata dalla guerra e dal dominio delle milizie. Una terra dove l’Italia e l’Europa continuano, dal 2017 ad oggi, a finanziare quelle milizie perché respingano per conto loro i migranti, che vengono così catturati in mare e deportati nei lager dove avvengono quelli che l’Onu chiama «orrori inimmaginabili». Mahmoud capisce che in Libia non c’è speranza neanche per lui, quindi prova la strada della Tunisia. Mentre è in viaggio, il 2 settembre, viene catturato dallo Stability Support Apparatus, un corpo militare libico, che lo tiene prigioniero nel centro di detenzione di Al-Assah per una settimana, finché non viene pagato un riscatto.

Il 10 settembre Mahmoud riesce finalmente ad arrivare in Tunisia e chiede asilo. Anche la Tunisia però sta diventando sempre di più un luogo di gravi privazioni di diritti umani per i migranti. Mentre l’Europa, su spinta dell’Italia, tenta accordi con quel regime perché contenga i migranti e impedisca loro di partire, le bande criminali e spesso gli stessi apparati militari infliggono ai migranti gravissime violazioni dei diritti umani. Anche Mahmoud, come tanti altri, deve affrontare minacce sia da parte di criminali sia di forze governative come la Garde Nationale, che effettuano un’enorme deportazione di migranti in Libia e Algeria. Mahmoud decide quindi di tentare l’ultima possibilità che gli è rimasta: la via del mare. Sa che è pericoloso, ma non ha altra scelta: il 6 febbraio scorso, con altre 42 persone, salpa dalla Tunisia verso l’Italia e l’Europa, a bordo di una barca di ferro. Poco dopo la barca si rovescia: Mahmoud e altre 39 persone vengono risucchiate dal mare, uccise dall’ingiustizia e dall’indifferenza.

Mahmoud, che desiderava spendere la sua vita per costruire la pace, ha lasciato un ultimo segno. Il 30 gennaio scorso ha scritto sul suo profilo Facebook una frase che sembra un monito a tutti noi: «Come possiamo costruire la pace se non la capiamo?» («How can we build peace if we don’t understand it?»). Lascia a tutti noi questa sorta di testamento.

Mahmoud è l’ennesima vittima sull’altare del cinismo e dell’indifferenza. Finché non riconosceremo le nostre responsabilità nelle crisi che lo hanno costretto a migrare, e a impedirgli di farlo in modo sicuro, non capiremo la via della pace. Quante altre vittime come lui devono esserci perché i nostri cuori, induriti dall’egoismo, si aprano e i nostri corpi, paralizzati dall’indifferenza, agiscano?

Il paradosso è che noi, non soccorrendo e non accogliendo quelle persone, stiamo respingendo l’ancora di salvezza che la storia ci sta gettando. Il dilagare dell’individualismo capitalistico, che porta a cercare solo il proprio profitto, a costo di sfruttare gli esseri umani e la terra, ad escludere gli altri e a favorire forme di discriminazione e di autoritarismo, ci ha portato in quella che viene chiamata «l’epoca delle passioni tristi», dove persino la salute mentale delle persone è sempre più compromessa. Siamo davanti a una terza guerra mondiale a pezzi, con stragi e altri orrori, e noi non riusciamo più a costruire la pace, riusciamo a stento a parlarne. Ha ragione Mahmoud: «Come possiamo costruire la pace se non la capiamo?». Le persone che arrivano, spinte da questo anelito alla pace, sono proprio coloro che ci possono salvare. Lo testimoniano le tantissime realtà che praticano accoglienza e fraternità: esse sperimentano una bellezza che mostra che la pace non è un’utopia, ma è realizzabile solo dando carne alla fraternità e alla sororità. Esse sanno che l’amore viscerale, che dà carne nei corpi e nelle relazioni alla fraternità, è la sola strada per la pace. Esse sanno che, come ha cantato Ghali a Sanremo, questo mondo è casa di tutti: ne consegue che solo se sapremo dare carne alla fraternità e alla sororità universali questa casa si salverà.

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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