di Davide Conti
«C’è chi, sotto la tempesta, trova modo di rinfacciare al vicino la tempesta che cade e perde tempo a litigare invece che a difendersi. Così sembrano fare oggi alcuni compagni, sotto la violenze delle bande armate». È il 30 settembre 1922, vigilia del congresso nazionale del Psi, quando Giacomo Matteotti, dalle pagine de La Lotta, lancia un ultimo appello alle forze del socialismo italiano dilaniate al loro interno e prossime alla scissione. Meno di un mese dopo sarà la cosiddetta «marcia su Roma» a decretare la caduta politica tanto della sinistra quanto dello Stato liberale che aprirà le sue porte al primo governo Mussolini. È un momento straordinariamente drammatico per la storia dell’Italia che osserva immobile l’emergere dalle viscere profonde del corpo della nazione di quel fenomeno inedito che fu il fascismo.
MATTEOTTI fu indubbio protagonista politico nonché acuto e originale interprete di quegli eventi (al pari di Gobetti e Gramsci che con lui condivisero non solo la decodificazione del fascismo e la sua natura ma anche il tragico destino di martiri del regime) e la sua figura si colloca dentro faglie distintive e contraddittorie della storia del nostro Paese.
A valorizzare e restituire al patrimonio nazionale la figura di Matteotti nella sua interezza e complessità cade, nel centenario del suo assassinio, il volume di Federico Fornaro (Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, Bollati Boringhieri, pp. 240, euro 19) che, scevro da retoriche celebrative, si misura con grande efficacia con il lascito e l’eredità politica del dirigente socialista.
L’autore alza lo sguardo oltre la dinamica criminale del sequestro e l’esito tragico della morte, per mano del commando fascista capeggiato da Amerigo Dumini, riconsegnando al lettore la traiettoria biografico-politica di Matteotti che finisce giocoforza per coincidere con la vicenda storica del Paese all’alba del Novecento: dall’iscrizione al Partito socialista nel 1904 fino alla coerente e costante opposizione all’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra; dalla crisi dello Stato liberale alla nascita del fascismo come «guerra di movimento» squadrista contro Leghe operaie e contadine; dalla formazione del primo governo Mussolini fino all’avvento del regime segnato proprio dal suo omicidio. Fornaro ha il grande merito di cogliere e riannodare storicamente i nessi centrali del pensiero e dell’azione di Matteotti nonché di quella parte del socialismo italiano che egli rappresentò.
LA «LOTTA DI CLASSE come fondamento e metodo del nostro partito» che non deve restringersi nella sola prassi della violenza come forma di «conquista del potere politico» ma articolarsi entro la strada della «conquista legale e graduale». Una postura tutt’altro che moderata perché incentrata su un riformismo radicale inteso come strumento in grado di intaccare gli assetti di fondo degli equilibri economico-sociali e politici della società italiana.
Il socialismo come «via della redenzione» ed autoeducazione del proletariato verso una rivoluzione che «avrà facile via sul corpo inerte, incapace e vile del capitalismo» ma sarà più difficile da imporre a se stessi. La centralità del sistema scolastico come perno di una società nuova che porterà Matteotti, nel novembre del 1920, allo scontro parlamentare con il ministro dell’Istruzione Benedetto Croce.
Il volume ripercorre in modo preciso e contestualizzato eventi che segnano in modo indelebile il corso della storia e che trovano in Matteotti un attore tra i principali e più coraggiosi, come nel caso del sostegno pubblico a Karl Liebknecht l’unico deputato della socialdemocrazia tedesca a votare contro i crediti di guerra nel 1914 o come l’indicazione dell’insurrezione, se necessario, per impedire l’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale e sconfiggere le istanze belliciste delle classi dirigenti. «Da buon riformista – scrive Matteotti – io non ho mai negato la possibilità e necessità rivoluzionarie. E occorre lo scoppio di violenza. Così ieri per ottenere le libertà statutarie. Così domani contro il militarismo». Una posizione che gli costerà accuse di antipatriottismo e lo distinguerà in modo netto anche da Filippo Turati con il quale mantenne comunque e sempre un stretto legame politico.
LA CRISI DEL SOCIALISMO italiano passa inevitabilmente per il confronto e la rottura intercorsa tra massimalisti e riformisti di fronte al «più fausto evento della storia del proletariato» ovvero la Rivoluzione russa del 1917. Da quel punto di caduta il destino del movimento operaio e contadino in Italia viene segnato prima dalla salita e discesa del «biennio rosso» e poi dall’emergere dello squadrismo fascista dentro la crisi dell’Italia postbellica.
Anche in questo frangente Matteotti rappresenta un dirigente politico che tiene insieme la capacità di cogliere la natura dell’avvento di un regime reazionario dai caratteri inediti e l’esposizione personale che ne mette a rischio l’incolumità fisica già prima (venne sequestrato e aggredito dai fascisti nell’agosto 1921) del suo omicidio del 10 giugno 1924. Una data che avrebbe simbolicamente rappresentato l’inizio del regime fascista e che esattamente 16 anni dopo ne avrebbe segnato la fine con l’entrata in guerra al fianco di Hitler.