Pubblicato su La Stampa
di Federico Fornaro
La complessa questione della fuoriuscita dal ventennio fascista venne sintetizzata da Winston Churchill con una delle sue proverbiali freddure: «In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti».
Partendo da questa velenosa battuta di incerta attribuzione, Gianni Oliva nel suo 45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio, edito da Mondadori, delinea, con documentato impegno, le contraddizioni, i limiti, gli errori, le furbizie e vincoli internazionali che hanno caratterizzato uno dei passaggi più difficili della storia italiana, capace di gettare un’ombra lunga fino ai giorni nostri.
Il tema di un Paese che non ha fatto fino in fondo i conti con il fascismo e con la sua eredità è, infatti, di bruciante attualità.
Quello che avvenne dopo il Dopoguerra non può essere ricondotto, per dirla con Ennio Flaiano, al dato antropologico degli italiani sempre pronti a correre in soccorso del vincitore e neppure alla tattica gattopardesca del «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
In realtà, la rottura con il fascismo finì per trasformarsi nel suo opposto, con un «disarmante riciclo di uomini, di strutture e di apparati» e il triste risultato finale che i conti con il passato «non vengono fatti per strategia, per opportunismo, per comodità, per timore».
La geopolitica o per meglio dire la divisione in due dell’Europa e del mondo, con l’aggiunta di essere diventati, nostro malgrado, Paese di confine tra il blocco militare sovietico e quello occidentale della Nato, rappresentarono un vincolo esterno che non può essere sottovalutato o peggio dimenticato, sull’altare della rappresentazione del vizio italico del trasformismo.
La Guerra Fredda condizionò pesantemente le scelte sia delle forze moderate, con a capo la Democrazia Cristiana, sia del fronte progressista, con un Partito comunista alla ricerca di una legittimazione politica e istituzionale, essenziale per rafforzare la strategia togliattiana della costruzione di un grande partito popolare e nazionale, pur nel quadro degli equilibri decisi dopo la fine del conflitto bellico che assegnavano l’Italia alla sfera d’influenza anglo-americana.
La mancata discontinuità è puntualmente testimoniata dalla «continuità» delle carriere di centinaia di magistrati, prefetti, questori e burocrati. Esemplari al riguardo biografie, puntualmente raccontate nel libro, come quella di Gaetano Azzariti, nominato dal regime, nel 1938, presidente del Tribunale della Razza, incarico che mantenne fino al 25 luglio 1943, per poi essere scelto, il giorno dopo, da Badoglio come ministro di Grazia e Giustizia, salvo riprendere, alla fine del ’45, il suo posto di capo dell’Ufficio legislativo dello stesso ministero con Togliatti guardasigilli e nel 1957 (fino alla sua morte nel gennaio 1961) essere eletto presidente della Corte Costituzionale; oppure quella di Marcello Guida, questore di Milano negli anni bui della strage di Piazza Fontana, a cui Sandro Pertini, all’epoca Presidente della Camera, si rifiutò nel dicembre del 1969 di stringere la mano perché era stato a lungo il direttore del carcere al confino di Ventotene, in cui il futuro Presidente della Repubblica era stato recluso.
Così come i numeri dell’epurazione in Italia, complice anche la discussa “amnistia Togliatti” del ’46, non sono lontanamente comparabili con quelli della Francia o di nazioni come la Norvegia, il Belgio e l’Olanda.
«Non fare i conti con il passato – scrive Oliva – è stata un’operazione razionale, attraverso la quale, all’indomani della Liberazione, si è costruita la memoria pubblica, cioè la rielaborazione di ciò che era stato in funzione delle esigenze del presente».
«Indagare i percorsi attraverso i quali tale memoria si è prima strutturata e definita e poi sedimentata in vulgata – prosegue Oliva, fornendo al lettore le coordinate e l’obiettivo del suo lavoro – significa cercare di comprendere ciò che siamo diventati e perché».
Attraverso questo filtro sono passati così in rassegna rimozioni e alibi, a cominciare da un dato oggettivo e a lungo nascosto: l’Italia la guerra l’aveva persa e non vinta, nonostante il riconoscimento formale dello status di cobelligerante e il contributo militare della Resistenza.
Eppure, come suggerisce l’autore, per comprendere se un Paese ha vinto o perso una guerra è sufficiente confrontare i confini nazionali prima e dopo il conflitto e nel caso dell’Italia, la linea di demarcazione nord-orientale venne arretrata di decine di chilometri, territori in cui vivevano circa 500.000 mila italiani diventati dall’oggi al domani Jugoslavia, per non parlare delle rettifiche confinarie con la Francia.
Per la narrazione pubblica di un Paese che “aveva vinto la guerra”, la priorità non era dunque quella di una profonda rottura con il ventennio, quanto piuttosto, sotto la spinta degli Alleati preoccupati dalle spinte di cambiamento radicali rappresentate dal «vento del Nord» e dagli stretti legami del Pci con Mosca, realizzare una più rassicurante normalizzazione in chiave moderata e anticomunista, garantendo una transizione morbida dal fascismo alla democrazia degli apparati burocratici e di sicurezza.
Sullo scacchiere internazionale, il nemico da combattere non era più il nazifascismo, ma la diffusione del comunismo, e la stessa Resistenza finì per essere usata come alibi per scaricare, in modo autoassolutorio, tutte le responsabilità dei vent’anni di regime su Mussolini.
Si possono così comprendere meglio le ragioni per le quali vicende come quelle dell'”armadio della vergogna”, i crimini di guerra commessi dalle truppe italiane contro i civili, ma anche le foibe e l’esodo giuliano-dalmata siano diventate nel secondo dopoguerra «pagine indicibili, rimosse perché ricordano la sconfitta».