di Daniela Preziosi
È stato un test nazionale, anche se piccolo, quello del 25 e 26 maggio, con solo due milioni di persone al voto? Lo è stato: ha votato il 56,3 per cento, un’affluenza «in linea con le precedenti elezioni» spiega Federico Fornaro, dunque «si conferma la persistenza di un astensionismo significativo in consultazioni tra le più vicine al cittadino-elettore e caratterizzate dalla presenza di numerosi candidati alla ricerca della preferenza personale. Va detto che a Genova, dove c’è stato un significativo aumento, più 7,7 per cento, quest’anno si è votato anche il lunedì».
Il deputato del Pd è autore del saggio “Una democrazia senza popolo” (Bollati Boringhieri, 170 pagine, 14 euro), che affronta proprio il tema dell’astensionismo, e della “deriva plebiscitaria” nell’Italia contemporanea: due frutti bacati della crisi dei partiti e della partecipazione. Genova, spiega, «è stata anni fa la prima grande città del Nord a evidenziare il declino della partecipazione, nei quartieri della città rossa e operaia, anche quando il centrosinistra vinceva. Nell’ultima grande tornata amministrativa, Torino Milano Roma Napoli al primo turno sono rimaste sotto il 50 per cento, tranne Bologna».
Per la consultazione referendaria del prossimo week end la destra di governo punta apertamente all’astensione. E anche la premier Giorgia Meloni, che ha dichiarato la bizzarra intenzione di «andare al seggio», ma senza ritirare le schede.
Il prossimo 8 e 9 giugno si votano i referendum. La vera sfida del mondo progressista è ridimensionare l’astensionismo?
Difendere la democrazia rappresentativa dagli attacchi dei vecchi e nuovi nemici e costruire una piattaforma alternativa alle destre populiste sono due facce della stessa medaglia. L’obiettivo è recuperare la fiducia nella politica come strumento in grado di migliorare la vita materiale delle persone. Dei “perdenti della globalizzazione”. Un mondo che non vota, che esprime rabbia e rancore. Questa lontananza alimenta la crisi delle democrazie. I dati dicono che quando quel mondo decide alla fine di andare a votare è più attratto dalla propaganda delle destra.
Perché la destra pesca nell’astensione e la sinistra no?
Dieci anni fa in Europa la destra radicale era una forza residuale. È avvenuta un’ibridazione. Sul tradizionale tronco del nazionalismo identitario si è innestato il populismo di quei movimenti che si candidano a rappresentare il popolo contro l’establishment. Vale anche negli Usa: gli spin doctor di Donald Trump sono riusciti a presentare un miliardario sostenuto più ricco del mondo come espressione del popolo contro l’establishment, rappresentato dai democratici. È un trucco. Oggi i bacini tradizionali del consenso della sinistra spesso votano a destra. Ma sono anche le aree con il maggiore astensionismo.
Per recuperare gli astenuti è più utile il M5s che il Pd?
Nelle elezioni del 2013 e del 2018 il M5s è stato una barriera significativa alla crescita dell’astensionismo: era un partito anti-establishment. Poi è successo l’inevitabile: un processo di istituzionalizzazione, il fatto che ha governato peraltro con maggioranze differenti, quindi ha perso la “purezza”. Non è un caso che le elezioni del 2022, in cui M5s ha avuto un forte arretramento, è stato l’anno in cui si è battuto il record di astensione. Nelle europee del 2019 quel mondo di rabbia sociale in passato aveva guardato anche a Salvini. C’è una quota dell’elettorato che decide all’ultimo se votare e se vota, vota la novità. Questo spiega, in parte, anche il risultato di Meloni del 2022.
È una condanna a vita, anzi a morte della sinistra?
No, perché Elly Schlein, uscita dalle primarie fuori dalle strette logiche di partito, è stata colta come una novità da alcuni mondi dove l’astensionismo c’è, penso a quello del mondo del lavoro dove, dopo il Jobs act, si era allargata la frattura. Uno dei problemi della sinistra in Italia, da 20 anni in qua, è che i ceti che avevano sempre guardato a sinistra oggi per la metà non vanno a votare. L’attenzione che Schlein ha per temi del lavoro può portare a recuperare l’astensione. Due operai su dieci sono lavoratori poveri, sebbene abbiano un contratto nazionale e a tempo indeterminato. E il fatto che lavorare non mette al riparo della povertà costituisce il crollo di uno degli assi fondanti della sinistra. La battaglia sul salario minimo è esemplare: parla alla vita materiale di milioni di persone.
Perché Fdi vuole cambiare la legge elettorale e abolire i ballottaggi nei comuni?
Per opportunismo. La destra crede che perda ai ballottaggi perché il suo elettorato tende a non a votare al secondo turno. L’eventuale riforma elettorale con il superamento dei collegi risponde alla stessa logica: con i dati del 2022, quindi con un risultato basso del Pd, anche un campo largo “ristretto” – Pd, M5s e Avs – darebbe risultati molto differenti nei collegi uninominali del Rosatellum. Anche in molti collegi di Toscana e Emilia Romagna ha vinto la destra per le divisioni della sinistra. Negli uninominali il 4 o 5 per cento disperso ha significato la sconfitta della sinistra a Modena, per esempio. Una coalizione anche stretta aumenta la contendibilità del centro-nord e garantisce la vittoria in molte realtà del sud. È questo che teme Meloni.
Ma il centrosinistra è un’alleanza teorica. I Cinque stelle si dichiarano incompatibili con i centristi, e nei comuni che hanno votato appena votato, si sono alleati perché Iv e Azione non hanno presentato i loro simboli.
Il dato strutturale del sistema politico italiano è che la destra, che non ha meno divisioni della sinistra, ha educato il proprio elettorato alla coalizione. Ha un elettorato coalizionale, dai tempi di Silvio Berlusconi, dunque da trent’anni, pur litigando e avendo politiche estere diverse, per esempio. La sinistra nel suo Dna ha la divisione, oggi accentuata dal M5s che non ha ancora completato la sua fase di cambiamento e che tende spesso ad accentuare gli elementi identitari. In più in molte realtà dove c’era un sistema consolidato della sinistra, la matrice originaria grillina è stata movimentista e antisistema, penso alle regioni “rosse”. A Torino ha tratto linfa dai No Tav.
C’è anche un problema al centro.
I centristi continuano a non accettare la bipolarizzazione, cioè le regole del gioco della legge elettorale. Risultato: ottengono anche risultati importanti, come nel 2022 in Lombardia, ma non portano a casa molto. A destra invece c’è un centro forte coalizionale, anche dopo la morte di Berlusconi. Di qua no, prosegue l’illusione del Terzo polo, che non si schiera. Salvo poi ipotizzare, come fa Carlo Calenda, di allearsi con la destra a Milano: diventa un centro à la carte. Invece lo spazio politico c’è. E c’è anche un’astensione di centro.
Ai referendum misurerete quanto lo schieramento referendario, politico e sindacale, riesce a pescare nell’astensione?
Quanto riuscirà a parlare ai “perdenti della globalizzazione”. Se rompe il muro di incomunicabilità. Il sabotaggio della campagna referendaria da parte del governo e della Tv pubblica è grave. Ma sono ottimista: nell’ultima settimana può scattare la voglia di partecipare. Perché quel voto non riguarda i partiti, o la scelta di candidati. Parla alla vita materiale di milioni di lavoratori e lavoratrici.