Pubblicato su Strisciarossa.it
di Maria Cecilia Guerra
Colpisce la fuga da conigli di larga parte della maggioranza di fronte ai Referendum, a partire ovviamente dalla nostra Presidente del Consiglio. Non è soltanto il fatto di non andare a votare (o di andare a votare senza votare, che è una inedita pagliacciata). Ma di non avere il coraggio di spiegare perché, nel merito, questi referendum meritano di fallire.
Fanno finta che i referendum non li riguardino e non riguardino tutti gli italiani e le italiane. Ma non è così. Anche chi non li ha promossi, con i referendum si deve confrontare. I quesiti sono chiari e ognuno è costretto a scegliere: o di qua o di là.
Non votare, lavarsene pilatescamente le mani, significa assumersi la responsabilità del no. E allora, dalla maggioranza che governa questo paese, dalla nostra premier, dai ministri di questo governo, vorremmo sapere perché no.
Il governo Meloni ha ampliato le possibilità di ricorso al lavoro precario
Sui temi del lavoro scappano sempre, fateci caso. Sul salario minimo, dopo avere sospeso i lavori della Camera, per mesi in attesa della loro proposta, hanno svuotato quella delle opposizioni, sostituendola con una delega che giace da un anno e mezzo al Senato. Anche la proposta delle opposizioni sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non hanno avuto il coraggio di bocciarla, quando era già approdata in aula, e l’hanno rimandata in commissione.
Ma intanto, con il decreto primo maggio e con il collegato lavoro, hanno ampliato a dismisura le possibilità di ricorso a contratti di lavoro precari, specialmente quelli a tempo determinato e quelli in somministrazione.
Al contrario, le ragioni del Si sono chiare e si tengono insieme, in un quadro unitario di contrasto ai gravi episodi di sfruttamento che ogni giorno mettono in discussione i diritti dei lavoratori.
I primi due referendum tutelano il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo. Un diritto riconosciuto anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. E lo fanno rendendo più incisive le sanzioni per chi licenza ingiustamente.
Per le imprese con più di quindici dipendenti, lo fanno riconoscendo a tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo del 2015 gli stessi diritti a essere reintegrati sul posto di lavoro che oggi sono riconosciuti a quelli assunti prima di quella data. Fra questi, il diritto ad essere reintegrati se licenziati ingiustamente: perché il datore di lavoro non si è premurato di guardare se, a fronte della cancellazione della sua mansione, il lavoratore poteva essere ricollocato in altra posizione; perché il datore di lavoro, in un licenziamento collettivo, non ha scelto chi licenziare sulla base dei criteri stabiliti dalla legge (fra cui la condizione familiare e l’anzianità lavorativa) ma ha scelto a sua piena discrezionalità; perché licenziati per colpe disciplinari lievi che i contratti collettivi indicano come punibili con una sanzione e non con un licenziamento.
Per le imprese fino a quindici dipendenti, in cui il licenziamento illegittimo è punito solo con l’obbligo di riconoscere al lavoratore un indennizzo economico, il referendum lascia al giudice la possibilità, sempre seguendo i criteri di legge, di indicare un indennizzo anche superiore alle sei mensilità di retribuzione attualmente riconosciute come massimo. E questo seguendo anche le indicazioni della Corte costituzionale, che ci ha più volte detto che avere pochi dipendenti non significa essere una impresa debole economicamente (pensate ad esempio a una succursale di una grande multinazionale dell’ICT), e che la sanzione deve agire come deterrente.
Basta contratti a termine camuffati
Ma il modo più facile di liberarsi di un lavoratore (ad esempio di una lavoratrice che ha deciso di fare un figlio) è sicuramente quello di assumerlo a termine. Il massimo della flessibilità. Il lavoro a termine ha una sua logica: è necessario lasciare questa possibilità alle imprese in caso di esigenze davvero temporanee: la stagionalità, un picco di produzione, una sostituzione. Il referendum contrasta non l’uso, ma l’abuso di questi contratti. L’abuso si ha quando l’esigenza non è affatto temporanea, ma il datore di lavoro assume Tizio per alcuni mesi, poi, quando arriva all’anno e dovrebbe esplicitare le causali per il suo rinnovo, lo sostituisce con Caio e poi con Sempronio. A testimonianza del fatto che l’esigenza non era affatto temporanea. Il lavoratore è quindi in una situazione di perenne ricattabilità e precarietà.
Con il sì al referendum il datore di lavoro è chiamato a specificare nel contratto la ragione per cui ha bisogno di un lavoro a termine, in coerenza con le ragioni previste, per quel settore, dai contratti collettivi nazionali siglati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Si cancella anche la norma, introdotta dal governo Meloni, per cui la motivazione per l’assunzione a termine può essere concordata fra datore di lavoro e singolo lavoratore, in spregio al principio fondamentale per cui le norme che regolano il funzionamento del mercato del lavoro devono tenere conto che su quel mercato chi vende e chi compra, lavoratore e datore di lavoro, non ha lo stesso potere contrattuale.
Per fermare la strage sul lavoro
Ma il lavoro a temine è anche fonte di insicurezza e incidenti sul lavoro, perché nessuno è disposto a investire sulla formazione dei lavoratori a termine, e questi lavoratori non stanno abbastanza tempo nel medesimo posto di lavoro per acquisire esperienze e competenze sufficienti a capire e conoscere i pericoli. Secondo i dati Inail, l’incidenza degli incidenti mortali sul lavoro nel caso dei contratti a termine è esattamente il doppio dell’incidenza degli incidenti mortali sul lavoro nel caso dei contratti a tempo indeterminato. Non è un caso, è una colpevole strage.
L’altro campo in cui gli incidenti sul lavoro sono maggiormente frequenti, e ce lo conferma il presidente dell’Anac, è quello degli appalti e subappalti. E questo avviene perché, spesso, questi appalti non sono motivati dalla giusta esigenza di affidare parte delle lavorazioni a imprese specializzate, ma perché si affida a imprese in appalto o subappalto il compito di procurare forza lavoro con contratti a più bassi salari e meno tutele. Le finte imprese, le finte cooperative, che quando avviene un incidente non fanno fronte agli indennizzi dovuti al lavoratore perché non hanno alcuna consistenza economica e scompaiono prima ancora che il processo venga terminato.
Per questo il quarto referendum chiama il committente alla responsabilità solidale, e cioè a garantire che l’indennizzo riconosciuto al lavoratore della ditta appaltatrice sia comunque erogato, facendosene carico direttamente se l’impresa appaltatrice non fa fronte. Perché questa responsabilità solidale, che già esiste per il versamento dei contributi e delle retribuzioni e per i danni relativi a rischi condivisi, deve essere estesa anche ai rischi specifici, e cioè a quelli che derivano ad esempio dal fatto che l’impresa appaltatrice usa materiali inidonei o non revisiona i macchinari, o non fornisce dispositivi di sicurezza adeguati? Perché il committente che affida il lavoro è chiamato a valutare la qualità dei soggetti a cui si appoggia, e deve stare attento a segnali inequivocabili come quelli che derivano dalla disponibilità a lavorare a prezzi troppo bassi, che sono possibili solo con scarsa qualità del lavoro e retribuzioni non adeguate. Non può lavarsene le mani.
Basta disuguaglianze, ridurre i tempi per ottenere la cittadinanza
Ma anche il quinto referendum è collegato a quelli sul lavoro. Va ricordato innanzitutto che non riguarda le persone che arrivano coi barconi, o che sono comunque presenti irregolarmente nel nostro paese, rispetto alle quali sono necessarie altre politiche e altra attenzione. Riguarda i lavoratori “stranieri” presenti regolarmente nel nostro paese, da un numero sufficiente di anni, a dimostrazione del loro desiderio di farne a pieno diritto parte. Il referendum li toglierebbe, in anticipo rispetto a quanto oggi avviene, dal ricatto del permesso di soggiorno da rinnovare. Abbassando da dieci a cinque gli anni necessari per potere chiedere la cittadinanza.
Toglierli dal ricatto aiuterebbe a ridurre le diseguaglianze profonde che ora sono costretti a subire in termini di tipo di contratto e retribuzione, che li pongono, inderogabilmente, ultimi fra gli ultimi. Difendere i loro diritti significa difendere i diritti di tutti.
Un riconoscimento più celere della cittadinanza avrebbe inoltre l’effetto benefico di ridurre quella vera e propria piaga sociale dei figli e delle figlie di “stranieri” che nascono in Italia o ci arrivano da molto piccoli e non sono mai uguali agli altri, ai loro compagni di scuola e di vita, e non sanno perché, perché non hanno altra patria fuori che la nostra. Votare il quinto quesito referendario è un dovere, perché serve a riconoscere, con il nostro voto, un diritto a chi non ha la possibilità di ottenerlo con il suo voto.
Che dubbi si possono avere su questi referendum?