Guerra: sulle politiche fiscali si fa l’Europa, sì ai referendum Cgil

Umberto De Giovannangeli - L'Unità
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Mario Rossi - La Repubblica

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Intervista a L’Unità

di Umberto De Giovannangeli

Maria Cecilia Guerra, deputata, responsabile Lavoro nella segreteria nazionale del Partito democratico. È stata sottosegretaria del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel governo Monti e viceministro nel medesimo dicastero, con delega alle Pari Opportunità, nel governo Letta, sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze nei governi Conte II e Draghi.

Quando si parla di una Europa più forte e unita, si fa sempre e solo riferimento alla difesa comune. E l’omogenizzazione fiscale, un tempo cavallo di battaglia delle forze di sinistra e progressiste, è ormai acqua passata?

La difesa comune, che ora si contende il monopolio del dibattito sull’Europa coi dazi di Trump, è solo uno dei profili che devono essere considerati. Il problema è la costruzione di una Europa federale, che porti avanti in modo autorevole e unitario politiche economiche e sociali, fortemente integrate, all’interno di una politica estera comune. In questo contesto il tema del coordinamento delle politiche fiscali è molto rilevante sotto almeno tre profili. In primo luogo, bisogna continuare la battaglia per sconfiggere i paradisi fiscali interni alla Ue, che attirano le imprese abbassando le imposte, e contrastare pratiche elusive di spostamento dei profitti. Bisogna accelerare la realizzazione del piano Befit, con la rapida approvazione della direttiva sulla base imponibile consolidata comune per le società che operano su più paesi Ue, inizialmente proposta da Vincenzo Visco. Un piano perfettamente integrato con l’importante direttiva, già adottata dagli stati membri, con cui è stata introdotta, con opportuni adattamenti al contesto europeo, la minimum tax sulle multinazionali. Ricordo che la minimum tax è anche uno dei due pilastri della proposta di coordinamento fiscale a livello internazionale promossa dal G20 e dall’Ocse, cui avevano aderito, nel 2021, ben 147 Stati. Trump si è affrettato a disconoscere l’accordo, definendo la minimum tax una pratica aggressiva nei confronti delle multinazionali Usa, in questo modo mettendo a rischio tutti i passi avanti sin qui compiuti. L’approvazione della direttiva Ue sulla base comune ridurrebbe anche quelli che nel dibattito di questi giorni sono chiamati “dazi interni”: i pesanti costi di adempimento richiesti alle imprese che, operando su più stati europei, sono costrette a confrontarsi con regole fiscali molto diverse da paese a paese.
Il secondo profilo riguarda la tassazione delle multinazionali del web, che realizzano i loro profitti da remoto, evitando l’imposizione che, in base agli accordi internazionali esistenti, è possibile da parte della singola nazione solo in presenza di una “stabile organizzazione” sul proprio territorio. Trump ha disconosciuto anche il secondo pilastro dell’accordo G20-Ocse che prevede che i profitti di queste multinazionali siano tassati dove si generano. L’Europa potrebbe allora riprendere l’opzione di una web tax europea, che gli Stati Uniti considerano però discriminatoria e quindi oggetto di ritorsioni. Oppure disegnare dazi in risposta a quelli di Trump, che prendano particolarmente di mira proprio i grandi profitti di queste multinazionali. Il terzo profilo dovrebbero poi riguardare l’individuazione di entrate proprie adeguate per rimpinguare il bilancio europeo, che si aggira attorno all’uno per cento del Pil, ed è ovviamente del tutto insufficiente a sostenere politiche economiche comuni, sempre più necessarie in campo industriale, dell’innovazione digitale e della Ia, delle infrastrutture strategiche, dell’ambiente, senza dimenticare le politiche sociali, che potrebbero rendersi urgentemente necessarie, nella forma ad esempio di un rinnovato programma Sure, anche come riposta ai prevedibili impatti di breve periodo della guerra dei dazi intrapresa da Trump.

Non riesco a concepire un riformismo vero che non sia anche radicale: chiaro nelle prospettive che persegue e quindi nel cammino per attuarle, cammino che poi può essere anche graduale. È evidente che lo strumento del referendum abrogativo non può essere in sé portatore di una compiuta riforma della materia su cui interviene. Ma può contribuire alla realizzazione di quella riforma, attivando un dibattito, sollecitando una partecipazione, chiamando i cittadini a esprimersi direttamente su questioni che riguardano la loro vita materiale. A coloro che dicono che siamo schiacciati su Landini io chiedo: quale dovrebbe essere la posizione del Pd di fronte a referendum che non ha promosso ma che pone problemi di così grande rilevanza per il lavoro? Secondo me il sostegno a questi referendum è per il Pd uno sbocco naturale. Si tratta di proposte che si intrecciano con molte delle nostre. Prima di tutto la questione della precarietà del lavoro. Togliere la possibilità di attivare contratti a termine sulla base di un accordo a tu per tu fra datore di lavoro e lavoratore in un contesto di assoluta asimmetria di potere sarebbe di per sé motivo sufficiente per votare sì a questi referendum. Il problema della disparità di potere contrattuale contraddistingue anche il tema del licenziamento, quello illegittimo, non fondato su ragioni economiche o disciplinari che non siano pretestuose. Anche il licenziamento illegittimo non adeguatamente sanzionato, così come il lavoro precario senza causali, pone, unilateralmente, la durata del rapporto di lavoro nelle mani del datore di lavoro. Il tema della precarietà coinvolge anche il quesito referendario sulla sicurezza sul lavoro negli appalti e subappalti, che chiama alle proprie responsabilità il committente, che troppo spesso si appoggia a imprese di comodo, per risparmiare su salari e tutele. I temi sono drammaticamente collegati: l’incidenza degli incidenti mortali sul lavoro, secondo l’Inail, è doppia nel caso di contratti a tempo determinato rispetto al caso di contratti a tempo indeterminato. E il Pd dovrebbe stare alla finestra? Non dare il proprio sostegno a queste battaglie?

Un fenomeno sempre più esteso è quello dei lavori poveri. Come agire?

Innanzitutto, bisogna capire che fra le cause profonde del lavoro povero c’è l’enorme questione salariale che caratterizza il nostro paese. Secondo l’Oil, tra il 2008 e il 2024 i salari reali italiani hanno registrato la caduta peggiore di tutti i paesi del G20 con una perdita dell’8,7%. Il recupero dell’inflazione è stato parziale e molto difforme da settore a settore, e svariati contratti sono ancora in attesa di rinnovo. La situazione è particolarmente drammatica nel terziario. Il problema di fondo è un modello economico centrato su una competizione basata sulla riduzione del costo del lavoro. Un modello che favorisce e spiega la crescita dell’occupazione nei settori a basso valore aggiunto ma che, al tempo stesso, genera una scarsa propensione all’innovazione. Il legame causale fra salari e produttività va letto nel giusto verso: non è la scarsa produttività che non permette un aumento dei salari, sono i bassi salari che non stimolano l’innovazione e quindi la produttività. Se non si capisce questo si condanna il paese a un lento e inesorabile declino. In questo contesto, con la battaglia per il salario minimo che stiamo conducendo assieme alle altre opposizioni, chiediamo che ai lavoratori, in qualunque settore operino, sia riconosciuto il trattamento economico complessivo dei contratti di lavoro siglati dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative. No quindi ai contratti pirata. Chiediamo poi che neppure i contratti rappresentativi possano prevedere minimi tabellari inferiori a 9 euro all’ora, perché sotto i 9 euro non è lavoro ma è sfruttamento. Certo non basta. La povertà dei lavoratori è pure figlia del lavoro precario: se si lavora poche ore o pochi giorni, anche con salari orari dignitosi non si sbarca il lunario. E questo accade anche se si è assunti a tempo indeterminato ma con contratti part time. Forme di lavoro, queste, che spesso confinano con il lavoro nero: un poco in regola e un poco pagato fuori busta. Il lavoro nero potrebbe essere sconfitto con le nostre proposte che mirano non solo ad ampliare i controlli ma anche a rendere vantaggiosa la denuncia da parte dei lavoratori sfruttati.

Due anni e mezzo di governo Meloni. Quale bilancio sul piano delle politiche economiche e sociali? Il Paese come se la passa?

Il bilancio è fortemente critico: il governo privilegia politiche spot, totalmente inadeguate alla gravità del momento. Due casi emblematici: a fronte della grave crisi dell’automotive il governo ha tagliato di 4,6 miliardi (l’80%), nella legge di bilancio, il fondo stanziato dal governo Draghi. A fronte di un costo dell’energia che è il più alto fra quelli dei principali paesi europei, la risposta è un decreto tampone, senza risposte strutturali. Il Pd, invece, da tempo propone modalità di disaccoppiamento del prezzo dell’energia dal, più caro, prezzo del gas, e la riconferma dell’acquirente unico per garantire prezzi più bassi alle fasce più fragili della popolazione. Sul piano sociale, si è proceduto allo smantellamento del reddito di cittadinanza, ricorrendo all’artificiosa distinzione fra persone occupabili e non, per poi dovere fare passi indietro significativi, ma insufficienti, per riconoscere che esiste il disagio adulto e che la spesa per affitto è una importante causa di povertà. Si è poi rilanciata alla grande la formula dei bonus (es. nuovi nati, o carta dedicata a te) fino ad arrivare a finanziare a spese della collettività fringe benefit decisi unilateralmente dai datori di lavoro, o ad articolare in ragione del numero dei figli detrazioni che non hanno niente a che vedere con la loro presenza o meno, quali le spese funerarie, o per badanti. In questa situazione e con l’arrivo dei dazi di Trump il paese non può che temere il peggio.

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