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Perché riconoscere lo stato di Palestina è necessario adesso

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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Quello che forse non è chiaro a tutti è l’obiettivo da tempo perseguito da Netanyahu: svuotare la striscia di Gaza. Gestire due milioni e trecentomila palestinesi (meno ventottomila dopo quattro mesi di raid incessanti sulla popolazione civile) chiusi a chiave da 17 anni è sempre stato un problema, ma dopo il 7 ottobre questo problema è diventato un’emergenza da cui liberarsi.

Basta guardare la cartina: la prima fase degli attacchi ha spostato tra un milione e quattrocentomila e un milione e settecentomila palestinesi giù a sud della Striscia, verso il valico di Rafah. Ovvero il Sinai, Egitto. Peraltro l’unica vera via di accesso degli aiuti umanitari da cui passano i camion della Mezzaluna rossa o delle Nazioni Unite. Purtroppo già troppo pochi: prima dell’atto terroristico di Hamas erano 500 i camion a entrare ogni giorno. Oggi poco più di cento. Significa cibo che scarseggia, medicinali pressoché nulli, acqua potabile vicina allo zero. L’epidemia di Epatite A è già in corso, la sua diffusione è superiore a un anno fa di sei volte.

Si attende ora – profetizzano da Medici senza Frontiere – l’avvento del colera. Come sempre dove non arrivano le armi, ci pensano le malattie a distruggere un popolo.

Ora la scelta annunciata dall’Idf di entrare a Rafah significa risospingere i palestinesi ammassati a sud di nuovo a nord. Ma le immagini parlano chiaro: non c’è più nulla. Gaza city è stata incenerita dai bombardamenti a tappeto, non esistono più infrastrutture in grado di accogliere i civili in fuga. Un luogo che le Nazioni Unite già definivano da anni come inabitabile, oggi è a tutti gli effetti invivibile.

Dunque, dove andare? Bibi vorrebbe che se li prendesse in carico l’Egitto, magari dietro “moneta sonante” che poi negli anni futuri Israele scaricherà sulla comunità internazionale. Come accade già in Giordania, in Libano, in Siria. Sterminati campi profughi prossimi al deserto del Sinai in attesa di un ritorno che non ci sarà. Ma Al Sisi ha già detto no e muove i carri armati.

D’altra parte, per Israele una striscia di Gaza abitata da mezzo milione di palestinesi è gestibile, con più di due milioni no. Anche perché nel frattempo la destra israeliana preme per un reinsediamento progressivo di coloni – a partire da quelli che erano usciti da Gaza nel 2005 per decisione unilaterale di Ariel Sharon – magari per costruire villaggi in riva al mare e militarizzare tutta l’area.

Il cessate fuoco che chiediamo non può essere separato dunque dal riconoscimento dello stato di Palestina.

Le due cose vanno insieme affinché non sia ripetibile un’aggressione su vasta scala come quella a cui assistiamo inermi da quattro mesi. E perché una comunità internazionale che accetta passiva un doppio standard sui diritti umani non ha più alcuna credibilità politica.

Martedì il Parlamento dovrà esprimersi su questo: vediamo il Governo italiano da che parte si schiererà. Ormai siamo qui, il mondo è davanti a questo piano catastrofico. Non regge più il discorso sulla difesa dei valori dell’Occidente da parte di Bibi contro i terroristi. È solo una ridicola scusa per non vedere l’abisso.

Il diritto internazionale sta morendo a Gaza, proprio mentre noi commentiamo l’esito di Sanremo. Il declino di una civiltà inizia così.

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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