Un contributo per il nostro sito di Francesca Borri, giornalista di Repubblica e del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, che ha accompagnato Arturo Scotto e Roberto Speranza in una parte del loro viaggio.
20 dicembre
Kibbutz Kfar Aza
Gaza non si vede. Ma si sente.
Si sente l’artiglieria israeliana. Che martella Shujaiya.
I primi giorni, si respirava ancora l’aria dell’attacco, qui, un’aria intrisa di sangue e carne al macero. Con i resti delle case frammisti a resti di corpi. Ora, respiri l’aria del contrattacco. Un’aria ruvida di cordite. Kfar Aza è uno dei kibbutz travolti dal 7 ottobre. Dei suoi 760 abitanti, 63 sono stati uccisi e 19 sequestrati. L’ultimo dei miliziani è stato snidato dopo 83 ore. E adesso, è tutto esattamente come era. Con queste case basse, a un piano, nel verde, carbonizzate o crollate, gli interni sottosopra, i muri traforati di schegge. Le bici rovesciate per terra, in cucina gli avanzi dell’ultima cena.
Sugli alberi, i mandarini ormai maturi.
Nei vialetti, i fori dei razzi.
E non un’anima viva.
A Tel Aviv, al suono delle sirene hai 15 secondi per entrare in un rifugio anti-missile. Ma Kfar Aza è proprio al confine: e hai solo 7 secondi. Il miklat, la stanza blindata che c’è in ogni casa, per legge, la porta di acciaio, e scorte di acqua, viveri, batterie, spesso è la stanza dei figli – le pareti celesti, gli orsi di pezza sul davanzale del vetro antiproiettile. Ormai, è normale. I razzi, i raid, i checkpoint. Gli attentati. Vai a cena fuori M16 in spalla, qui. Diceva Tiziano Terzani: la cosa più terribile della guerra è che ti abitui.
Gaza è di là da un cancello grigio chiaro. E pensi quello che hanno pensato tanti, il 7 Ottobre, e che è difficile e scomodo dire, ma è così vero: ma come si fa a organizzare un rave a ridosso di Gaza? A ridosso di un carcere?
Secondo l’ONU, Gaza nel 2020 sarebbe diventata inadatta alla vita. Ed è il 2023.
E tu balli lì accanto. Come se niente fosse.
Ma perché per gli israeliani, i palestinesi non esistono. E da anni ormai. Da quando sono stati firmati gli Accordi di Oslo. Da quando è iniziato il processo di pace. Prima, da Gerusalemme andavi a Nablus. A Hebron. Ora, è vietato. Ora di mezzo c’è un Muro. E c’è la tecnologia. Non hai più neppure bisogno di stare di guardia. Hai le telecamere di sorveglianza, hai i sensori termici. I droni. Ed è tutto così immateriale. Così astratto. E per i palestinesi, gli israeliani sono altrettanto astratti. Altrettanto invisibili. Si scontrano con l’esercito, certo. Con i coloni. Ma nessuno dei video filmati dalle GoPro di Hamas qui a Kfar Aza, in cui tanti sono stati giustiziati a mani legate dietro la schiena, tanti bruciati vivi, tanti smembrati, tanti trascinati via come trofei, e a Gaza, poi, scaricati giù dai pick-up, e investiti di sprangate – nessuno dei video del 7 ottobre gira tra i palestinesi. Ognuno è concentrato sui crimini dell’altro. La ferocia dell’altro. E basta. Settant’anni dopo, qui ancora la domanda è: Chi ha cominciato per primo?, invece dell’unica che conta davvero: Come finirla?
Il nostro driver palestinese parcheggia in un angolo, e rimane a bordo.