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Viaggio in Terrasanta, giorno 2: il cardinale Pizzaballa e Nablus

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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Diario di Arturo Scotto in viaggio in Terrasanta con Roberto Speranza. 2/

18 dicembre
Gerusalemme e Nablus

Arriviamo alle 9 al Patriarcato Latino di Gerusalemme e ci chiudiamo a discutere nella grande sala di preghiera dove ci accoglie il Cardinale Pizzaballa. Lui è qui da 34 anni, si può dire che larga parte del suo percorso nella Chiesa cattolica si è consumato in questo groviglio inestricabile.

Il nostro obiettivo è portargli innanzitutto la solidarietà per quanto accaduto a Gaza appena il giorno precedente, quando l’Idf ha colpito la Chiesa della Sacra Famiglia, uccidendo due donne che erano andate lì a pregare. Una cosa inaudita, inaspettata e che ha destato sconcerto in tutto il mondo. Sua Eminenza ci dice in premessa che dal 7 ottobre i già esili nonché compromessi spazi per il dialogo interreligioso si sono totalmente chiusi. I cristiani parlano con i musulmani, parlano con gli ebrei ma non riescono più a parlare insieme a musulmani ed ebrei. È calata insomma la saracinesca dell’ incomunicabilità. E questo per la gestione della Città vecchia è un problema non da poco: si sono interrotti tutti i canali, tutte le occasioni di reciprocità. Anche il Natale rischia di essere in tono minore perché la paura ha preso il sopravvento e la situazione è tutt’altro che tranquilla anche a Betlemme.

Il cardinale Pizzaballa è convinto che il deposito di odio che si è accumulato difficilmente sarà sradicato in poco tempo. Quello che non è stato fatto dopo Oslo è innanzitutto un lavoro culturale, una sedimentazione a partire dall’infanzia della necessità della pace come unico strumento per convivere in un luogo troppo piccolo per contenere tanto peso della storia. Saranno necessarie nuove generazioni e una capacità di iniziativa della comunità internazionale che al momento è praticamente assente. La strada da percorrere immediatamente è il cessate il fuoco: a Gaza sta morendo il senso della giustizia e del diritto oltre che migliaia di persone.

Subito dopo ci mettiamo in auto per Nablus. Nei giorni precedenti una nostra visita in quella che è una delle più antiche ed estese città della Cisgiordania era stata sconsigliata. Solo tra agosto e settembre vi erano stati spenti gli ultimi focolai di ribellione ad Israele ma anche nei confronti dell’Anp. Qui era nato un un movimento di giovani armati – i Lions‘ Den – che si erano staccati da Fatah e avevano preso le armi, senza legarsi a nessuna delle fazioni palestinesi. Nelle ultime settimane erano ricominciati scontri, distruzione di edifici (avvenuti poi anche nelle ore in cui eravamo lì), operazioni sul campo dell’Idf per arrestare esponenti di Hamas o di altri gruppi.

Impieghiamo due ore circa per arrivarci (sono appena poco più che una sessantina di chilometri da Gerusalemme): le strade sono interrotte, l’arteria principale – la 60, l’antica Strada dei Patriarchi ora meglio conosciuta come la Via del Sangue, che attraversiamo con il nostro esperto driver Mike – in ogni caso non arriva oggi fino a Nablus, bisogna fare un percorso più tortuoso. Dobbiamo attraversare vari villaggi, compresa una piccola e suggestiva città samaritana attraverso cui oggi è obbligatorio passare il check point per Nablus.

Impressiona, lungo la strada, la penetrazione degli insediamenti coloniali – iniziano con gli accampamenti di caravan e finiscono con vere e proprie città con scuole, università, fabbriche – che incombono sui villaggi palestinesi: qui capisci che Oslo è diventata soltanto un’evocazione astratta. Non c’è spazio per uno stato autonomo, il cui territorio viene divorato pezzo per pezzo dai settlement e dal muro di separazione che non rispetta completamente la green line. Colpisce, durante il tragitto, Huwara, una cittadina di 8000 abitanti circondata da un insiediamento di 8000 coloni, un crocevia commerciale ormai chiuso e sbarrato, senza nessuno per strada, con i negozi vuoti e l’esercito a ogni angolo di strada.

Ci accoglie alla municipalità di Nablus il vicesindaco Husam Shakhshir, esponente di Fatah, docente universitario di diritto internazionale. Il colloquio dura oltre un’ora e parte da qualcosa che lega Nablus a due città che io e Roberto conosciamo benissimo, Napoli e Firenze, entrambe gemellate con questo municipio. Ma purtroppo da un po’ di tempo i progetti comuni sono fermi o cancellati: ci impegniamo a riattivarli.

Nablus ha una conglomerazione urbana che raggiunge quasi quattrocentomila abitanti, un luogo di commerci e di scambi dalla notte dei tempi, fondata dall’imperatore Flavio e non a caso chiamata Neapolis. Dal 7 ottobre la municipalità non riesce a pagare gli stipendi ai propri dipendenti (negli ultimi due anni tra l’altro solo al 50 per cento), molti negozi hanno chiuso, e così le attività produttive principali (dal sapone all’olio di oliva, dal legno, passando per la “taina” – che è la crema di sesamo che serve per fare l’hummus, fino al cuoio e alle piastrelle ): le ordinazioni sono tutte ferme. Infatti, quando visitiamo una antica fabbrica di sapone, una delle poche che ancora lo produce con metodo tradizionale come ad Aleppo e come qui hanno insegnato ai Marsigliesi sin dai tempi dei crociati che non ne conoscevano l’uso, ci dicono che la situazione è molto difficile e che sarà durissimo non licenziare.

Con il vicesindaco ci soffermiamo sulla situazione politica, lui è tra i riformatori di Fatah, crede nella necessità di un processo democratico da consumare rapidamente previa l’esplosione ulteriore del campo palestinese in mille rivoli. Non c’è alternativa alla formula “due popoli due stati”, ma questo principio va fatto rispettare con la forza del diritto internazionale e quindi ripristinando i confini del ’67. Alla nostra domanda se esiste uno spazio per una soluzione confederale o binazionale, come alcuni intellettuali palestinesi e israeliani cominciano a dire, ci viene risposto che è una strada assolutamente non praticabile. Bisogna separare palestinesi da israeliani e costruire una statualità vera.

Sarà la stessa risposta che ci forniranno i tre esponenti palestinesi, intellettuali ed esponenti di associazioni per i diritti umani (Jamal Zakout storico collaboratore di Salam Fayyad, Shawan Jabarin direttore di al-Haq e Ghassan Toubasi analista politico che presiede il “dialogue forum”) che incontriamo la sera a cena a Ramallah. Sono cinquecento i palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno in West Bank, trecento dopo il 7 ottobre. Zakout ci dice che non se ne esce senza un governo di unità nazionale temporaneo che avvii un processo democratico nuovo in Palestina, che ormai la leadership palestinese è logorata e un paese dove non si vota da quasi un ventennio non ha la forza di rilanciare l’economia e di negoziare alcunché.

D’altra parte è la stessa Ramallah a raccontare le mille fratture che attraversano la società palestinese. Ci capita a un certo punto del pomeriggio di assistere a un mini corteo della Jihad Islamica (poco più che quindici persone) che contesta l’autorità nazionale palestinese: sembra folclore ma ha un tratto inquietante.

Nella capitale respiri la stessa modernità anonima di altre capitali arabe: centri commerciali, grandi alberghi e ristoranti, piazze illuminate e razionali. Nablus appare immediatamente lontana, il trapassato remoto. Eppure se vuoi capire qualcosa del conflitto, passeggiare per la città vecchia, attraversando i luoghi dove si è sviluppata la rivolta della “fossa dei leoni”, rappresenta una tappa obbligata. I manifesti dei ragazzi morti nei combattimenti sono migliaia, trasferiscono l’idea di un lutto permanente, di ragazzi che hanno visto i propri coetanei in carcere o nella tomba, di madri che hanno cresciuto figli troppo giovani per vederli sottoterra.

Ci accompagnano la giornalista Francesca Borri, inviata di Repubblica e del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, insieme ad una giovane architetta italiana trapiantata qui da tempo per una scelta di vita, Alessandra. Il mercato è vivo, i motorini sbucano da tutti i lati, i bambini giocano a pallone sotto la lapide dove Arafat ha vissuto nel 1965 quando ancora l’Olp si stava formando, si sente il rumore fortissimo dei jet che vanno verso il Libano dove ieri sera ci sono stati bombardamenti a sud di Beirut.

Nablus è la città più giovane della Cisgiordania, la metà della popolazione ha meno di venti anni e quella che è stata una sorta di “paranza dei bambini” viene raccontata come una resistenza di tipo nuovo all’occupazione. Di cui sentiamo le tracce fortissime nel campo rifugiati di Balata dove al Jaffa center incontriamo il direttore Oussama Mustafa e il capo dell’Olp del luogo, vecchio amico di Arafat, Tayseer Nasrallah.

È un uomo di sessant’anni, ha mediato lui per la resa degli ultimi sopravvissuti – ragazzi e spesso ragazzini – della “fossa dei leoni”, forse risparmiando la morte a molti di loro. Nel centro del campo la bandiera dell’Onu che qui – dove non c’è acqua potabile, dove l’elettricità arriva poche ore al giorno, dove le fognature sono un sogno – è presente con scuole e presidi sanitari sempre più decadenti. Servirebbero investimenti, mentre resta solo qualche bandiera sgualcita a sventolare. Non si sa in nome di quale comunità internazionale.

Domani Betlemme e Ramallah.

(2/continua)

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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