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Viaggio in Terrasanta, giorno 3: Ramallah e l’Italia che non c’è

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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Diario di Arturo Scotto in viaggio in Terrasanta con Roberto Speranza. 3/

19 dicembre
Betlemme e Ramallah

Betlemme è chiusa, ma non è come il 2002 quando fu cinta d’assedio anche la chiesa della Natività. Oggi è chiusa perché vuota, spettrale, abbandonata al suo destino. Il 7 ottobre ha dato a Betlemme la mazzata definitiva. Non si vede mezzo pellegrino, nemmeno i cristiani palestinesi sono in giro. I negozi di souvenir sono sbarrati, la basilica vuota ad eccezione di una cerimonia ortodossa e di una preghiera cattolica. Per arrivarci dobbiamo fare un tragitto un po’ singolare: lasciare il nostro van, scavalcare un muretto e prendere un taxi. Chi viene da Gerusalemme deve fare così, i check point questa mattina sono chiusi e su Betlemme pesa come un macigno la presenza del muro di separazione. Così si presenta oggi una delle più grandi attrazioni turistiche del Medio Oriente, e niente cambierà a Natale e chissà per quanto tempo ancora: questa città sarà ridotta allo stremo.

La nostra visita è istantanea, ma aveva ragione padre Ibrahim Faltas a dirci che non potevamo non andare a Betlemme. Però abbiamo appuntamenti a Ramallah, e qui sai quando parti e non sai quando arrivi. Mi sono sempre domandato quanto la concezione del tempo tra un occidentale e un palestinese sia profondamente diversa. Il rapporto tra quanto lavori e quanto trascorri in auto se esci ed entri dai territori è affidato alla ruota della fortuna. Significa non avere una vita lineare con gli orari normali di un pendolare: qui non siamo davanti al ritardo di un treno o di un autobus che ti fa arrabbiare ma che alla fine accetti che possa capitare, qui è la vita di tutti i giorni per diverse centinaia migliaia di persone: un fenomeno di massa. Che cambia l’orologio biologico di operai, artigiani, camerieri, impiegati, insegnanti. Un contributo a un processo di de-umanizzazione delle vittime dirette e indirette di questo conflitto che ti colpisce e ti sconcerta.

L’inglese del nostro interlocutore è fluente e molto poco tecnico: per quanto sia il ministro dell’economia di un paese sotto occupazione non ha le sembianze di un uomo rassegnato. Shukry Bishara ci dice: non può esserci crescita in un paese che non ha l’autonomia sulla moneta, sull’esercito, sulla terra che amministra. Il 65 per cento dei soldi dei palestinesi finisce nelle casse israeliane, la divisione erede di Oslo in tre aree non funziona più, genera frustrazione e impossibilità di avere un diritto certo per milioni di persone. Lancia l’allarme di una crisi che rischia di avvitarsi ancora di più perché i palestinesi sono fermi da due mesi, con l’80 per cento del Pil che è crollato. Gaza è un assillo, ma la preoccupazione vera è la tenuta della West Bank. Quanto reggerà?

Mustafa Barghouti è una vecchia conoscenza, nostra e della sinistra italiana e lo incontriamo alla Palestinian Medical Relief Society di cui è presidente. Intellettuale raffinato, medico che ha studiato a Mosca e si è laureato a Stanford, avversario di Abu Mazen nelle elezioni presidenziali del 2006, fondatore dell’Initiative National Palestine, nei sondaggi il terzo partito. Ci racconta di un’autorità nazionale palestinese ormai sull’orlo del fallimento, di una democrazia che aveva alimentato speranze in tutto il Medio Oriente ma che non rinnova i suoi organismi da quasi un ventennio. Il parlamento nei fatti non esiste più, la separazione dei poteri è puramente ipotetica, si governa con decreti su decreti. Il campo palestinese non è mai stato così diviso. Per questo lui sta lavorando da mesi a una soluzione che abbassi la tensione, promuova un governo di unità nazionale di tutte le fazioni palestinesi e accompagni il paese a elezioni presidenziali e legislative su base proporzionale.

Il primo ministro dell’Anp, Mohammad Shtayyeh, ci mostra la cartina di Gaza, ci dice che ormai sono tra il milione e duecentomila e il milione e seicentomila le persone scappate verso sud, verso il valico di Rafah al confine con l’Egitto, in una lingua di territorio che fa appena 14 chilometri in termini di larghezza. D’altra parte non va mai dimenticato che la dimensione della striscia è di 365 mila metri quadri, 6 volte meno del territorio di Roma, e ci vivono 2 milioni e 200.000 persone di cui il 46 per cento sotto i 18 anni. Uno spostamento enorme di persone, alcune delle quali sono ormai da un mese e mezzo fuori casa, spesso con gli stessi abiti di quando sono partiti. Un bagno ogni 250 persone, una doccia ogni 750: pazzesco! Denuncia i ritardi negli aiuti umanitari, le lungaggini burocratiche a cui sono sottoposte le organizzazioni che portano cibo, medicine e altri beni di prima necessità.

Poi ci offre la sua lettura della fase, che io ho trovato un po’ ottimistica per la verità. Lui mette in fila Israele, Hamas e Anp. E prova a dare un giudizio sulle tre entità attorno alla dialettica tra “losers” e “winners”. Dice che Israele esce dal conflitto sconfitta da Hamas, anche perché costretta a trattare gli ostaggi, e perdente sulla scena internazionale per il massacro di Gaza. Hamas vince sì nel popolo palestinese perché appare la forza che difende il popolo occupato e riesce a ottenere la liberazione dei prigionieri, ma perdente sul lungo periodo perché espone Gaza a una carneficina e non ha prospettiva politica se non la guerra. L’Anp perde nel popolo, soprattutto nella West Bank, per le accuse di debolezza e di fragilità del suo gruppo dirigente, ma vince perché se si riapre una possibilità di pace e sicurezza restano l’unico interlocutore possibile della comunità internazionale. Capisco tutto, ma temo che dopo i 1.200 morti del 7 ottobre e i 20.000 a Gaza nessuno possa dirsi vincitore.

Il giudizio dei palestinesi sul governo italiano è drastico: non si aspettavano l’astensione in sede ONU dell’Italia sul cessate il fuoco. Lo hanno trovato un gesto di rottura rispetto a una lunga tradizione di difesa dei diritti umani e di dialogo con il mondo arabo. Stessa cosa ci dice la ministra della salute Mai Alkala, nostra vecchia amica perché già ambasciatrice in Italia negli anni in cui con Roberto ci impegnammo a varare una mozione – approvata dal Parlamento italiano – per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Iniziativa che purtroppo non ha trovato poi uno sbocco nelle scelte dei governi successivi e su cui abbiamo promesso torneremo a impegnarci fortemente al ritorno in Italia. Con lei Speranza condivide anche il comune impegno nella lotta al Covid, che li ha visti contemporaneamente ministri e protagonisti in quegli anni terribili.

La serata si conclude con incontri con giornalisti italiani sul luogo. Sono impressionanti le storie che ci raccontano, la difficoltà – che è anche la mia – a spiegare all’esterno la follia e la complessità di questo conflitto e anche la nebbia che abbiamo davanti. La sensazione è che Netanyahu non si fermerà nonostante i richiami – ancora troppo flebili – della comunità internazionale.

Domani incontreremo i partiti della sinistra israeliana e il direttore di Haaretz e andremo a visitare il kibbutz di Kfar Aza a due chilometri da Gaza colpito dai terroristi il 7 ottobre e ad incontrare le famiglie degli ostaggi: ci interessa capire se esistano spiragli nella società israeliana per chiedere un cessate il fuoco e la riapertura dei colloqui. Dall’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione) ci arriva un allarme vero: in tutto il 2023 non è arrivato un euro. Eppure hanno 30000 persone di staff che operano tra Giordania, Siria, Libano, West Bank e Gaza. A Gaza sono 13000 e si occupano di presidi sanitari, scuole, servizi fondamentali. Ogni anno ricevevano 13 milioni dal nostro governo. Quest’anno zero euro. Il direttore nel maggio scorso è stato ricevuto dal Papa, il governo non li ha nemmeno incontrati. E ha bloccato nei fatti i pagamenti. Significa non pagare stipendi a insegnanti e medici sul posto, non sviluppare i programmi di educazione alle pari opportunità (su cui l’Italia è impegnata) oltre che nessuna erogazione di cibo.

Chiederemo spiegazioni al governo, auspichiamo sia solo un problema contabile. Ma qualche dubbio francamente ce l’abbiamo.

(3/continua)

Lavoro e democrazia. Per una legge sulla rappresentanza.

Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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