di Gabriele Scaramuzza
È passato sotto traccia, nel dibattito pubblico italiano, il duplice anniversario dell’appena trascorso mese di gennaio, dei 50 anni dalla scomparsa di Carlo Levi e degli 80 anni dalla pubblicazione del suo lavoro più noto, quel Cristo si è fermato a Eboli che, pubblicato nel 1945 ripercorrendo la memoria del confino in Lucania del 1935-1936, contribuì a riportare all’attenzione dell’Italia appena uscita dal secondo conflitto mondiale la questione meridionale.
Nato a Torino nel 1902, tra i fondatori, nel 1929, di “Giustizia e libertà” insieme a Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, Carlo Rosselli, Levi esercitò la professione di medico, ma ben presto si avvicinò alla pittura, e quindi alla letteratura. E in effetti la prosa di Levi è fecondata tanto dalla scrupolosa indagine della cultura scientifica, tanto dalla capacità di intuizione e descrizione poetica del registro artistico.
E forse è proprio la lingua di Levi, nutrita di questo sapiente impasto, quella che sa cogliere e restituire al pubblico l’essenza della condizione di vita degli abitanti delle terre di Lucania, che divengono, grazie proprio a quella lingua, gli epigoni di un popolo che vive, da sempre, al di fuori e accanto alla storia dei calendari pubblici nazionali.
È per l’appunto il popolo dei non cristiani, perché Cristo, secondo l’autonarrazione di queste genti, si è fermato a Eboli, ha preferito non oltrepassare una soglia, quella della cosiddetta civiltà, per immergersi nella dimensione remota e prestorica dei contadini lucani, Se certa critica storicista, pur apprezzando la resa letteraria della condizione drammatica della campagna lucana, rimproverò all’autore di non averne indagato secondo criteri storicistici le cause, va detto che Levi compie un’operazione più profonda, di natura antropologica e filosofica.
Perché lo sguardo di Levi, nel condurre il proprio lettore attraverso gli angusti vicoli dell’abitato di Gagliano, le balze delle gravine, i brulli pianori, nel seguire passo a passo le azioni ancestrali dei contadini, delle donne del paese, dà luce e voce a una coscienza collettiva, a una dimensione esistenziale che preesiste a quella del tempo ufficiale, incarnata nei (pochi) notabili del paese che hanno nel podestà don Luigino l’epigono più comico e significativo.
Forse solo la scrittura di Levi è il grimaldello per aprire le porte di una dimensione in cui realtà e magia coesistono, in cui sussiste un legame originario e profondo tra natura umana e natura belluina, il religioso abbandona il proprio sguardo differenziante per lasciare posto al sacro. E tutto ciò viene reso da Levi con una scrittura veloce, complice la propria attività di pittore, in grado di fissare in alcune figure vivide – l’incantatore di serpenti, i “monachicchi”, le “donne-strega” – questa realtà arcana.
Con lungimiranza Italo Calvino sosteneva che la peculiarità di Carlo Levi consiste nell’essere “testimone della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo”, di un “mondo che vive fuori della storia di fronte al mondo che vive nella storia”.
A ben guardare, la prospettiva che disegna Levi è ben più radicale della denuncia sociale – che pure è ben presente e costante nella sua opera – perché si propone di dimostrare la preesistenza e la persistenza – accanto all’esistenza formale della Religione e dello Stato (con la maiuscola) che in quel momento trovano nel regime fascista la più limpida incarnazione – di una umanità certamente segnata dalla miseria e dalla povertà, dall’indolente rassegnazione, ma non per questo non resistente e più genuinamente prossima alla dimensione originaria dell’esistenza. Una umanità contraddistinta dalla pazienza e dalla sottomissione, cui non mancano però episodi di irruzione – anche virulenta – nella storia pubblica ufficiale: tale è l’esempio, per il nostro autore, del brigantaggio.
Ciò che Levi opera è quindi la dimostrazione che quell’ordine costituito, in realtà, ha fallito nel presumere la propria esclusività, perché accanto alla reductio ad unum che costituisce la natura di ogni regime autoritario permane una sfera di autenticità e vitalità che ha nel popolo dei contadini i propri rappresentanti. E la considerazione dell’autore mette in guardia dal presumere che, una volta sconfitto il regime, si possa restituire naturaliter condizioni di vita dignitose a quelle genti, perché il tema che Levi mette sotto l’attenzione è quello del rapporto con lo Stato, soprattutto nella sua incarnazione piccolo borghese: “Fra lo statalismo fascista, lo statalismo liberale, lo statalismo socialistico, e tutte quelle altre future forme di statalismo che in un paese piccolo borghese come il nostro cercheranno di sorgere, e l’antistatalismo dei contadini c’è, e ci sarà sempre, un abisso; e si potrà cercare di colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui i contadini si sentano parte”.
Messa a punto quella dello Stato come la questione fondamentale per evitare il perpetuarsi di una divisione del paese, Levi affronta i tre aspetti di tale questione, anzi le tre facce di una sola realtà che non possono essere affrontate diversamente. Il primo nodo – ben prima della teoria dei cleavage della scienza politica – è proprio quello del rapporto campagna-città (che per Levi è anche la dicotomia civiltà precristiana-civiltà non più cristiana) che ha storicamente incarnato la prima nelle vesti della dominata, la seconda della dominante.
Il secondo nodo è quello più squisitamente economico, che nelle terre di Lucania si traduce immediatamente nella miseria persistente e costante, aggravata dalla cronica assenza di capitali, industrie, scuole e risparmio. L’ultimo nodo, quello sociale, si sostanzia nella critica alla piccola borghesia dei paesi, classe economica e sociale agli occhi di Levi degenerata e incapace di adempiere alla sua funzione.
Nel tentativo di trovare una forma di affrancamento dalla perpetua condizione di servaggio delle genti contadine e, per relazione, alla questione dello Stato, Levi adombra la questione dell’autonomia, ossia della concezione dello Stato come insieme di autonomie, come organica federazione di comunità (si tratta, a ben guardare, di una concezione dell’autonomia lontana le mille miglia da quella oggi brandita dal centro destra, che agli occhi di Levi sarebbe parsa piuttosto l’ennesima incarnazione del predominio piccolo borghese. La cellula dello Stato – per i contadini – deve dunque consistere nell’autonomo comune rurale, che deve peraltro coesistere con “l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale”.
Peraltro, in un articolo pubblicato ne La nazione del popolo l’11 giugno 1945, Levi individuò una forma primigenia di tale organizzazione sociale nei Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), scrivendo che essi “per essere vitali, devono corrispondere a una collettività umana ben differenziata e limitata: CLN di azienda, di fabbrica, di fattoria, di comune rurale, di comune cittadino, di scuola, di provincia, di regione, su su fino agli organismi centrali”.
Quella che Levi solleva, pertanto, è certamente la questione contadina e meridionale nell’Italia appena riemersa dalla dittatura fascista, ma non solo. Attraverso tale questione Levi pare attingere a un’altra, ancora più originaria, quella degli ultimi, degli scartati della storia, e in questo senso la sua opera acquisisce un valore che va oltre la pur giusta e doverosa contestualizzazione letteraria e storiografica.
Ciò che Levi sostanzialmente afferma è che occorre passare attraverso una rifondazione dello Stato dal basso, che tenga conto di tutte le realtà di aggregazione umana che la storia produce, se si vuole dare davvero cittadinanza. Certamente la prospettiva auspicata da Levi non è esente da critiche – su tutte il rapporto tra individuo e comunità originarie – ma nondimeno costituisce un tentativo, nell’Italia del Novecento, di dare voce e rappresentanza a chi fino a quel momento aveva vissuto fuori dalla storia.
In un tempo scandito dalle posture muscolari del nazionalismo, dallo sdoganamento della destra più estrema nelle posizioni di governo in molti paesi del mondo, dall’allontanamento dei ceti sociali più bassi dalla sinistra, giova riandare all’analisi di Carlo Levi, per provare a recuperare – anche in termini di proposta politica – la questione degli ultimi, che costituisce oggi più che ieri una delle grandi emergenze epocali, insieme a quella ambientale. Certo Levi leggeva questa questione attraverso la realtà concreta dei contadini di Lucania, ma essa continua non di meno ad esistere oggi, incarnata nel sud globale piuttosto che nel dramma dei migranti. Del resto, lo stesso Italo Calvino nel 1967 ad affermare che la rivoluzione contadina, di cui Levi si era fatto profeta, costituiva “uno dei termini del grande dibattito storico del secolo, anche se il quadro si è spostato da quello della meridionalistica italiana a un quadro afroasiatico e latinoamericano”.
Ciò che Levi ha tentato di affidare, non solo ai propri contemporanei, è la consapevolezza che proprio gli ultimi – i contadini di Lucania ieri, il sud del mondo oggi – costituiscono una riserva di senso in grado di rinnovare dal basso le comunità. Come scriveva il sociologo Claude Lévi-Strauss, “bisogna ascoltare la ‘crescita del grano’, incoraggiare le potenzialità segrete, risvegliare tutte le vocazioni a vivere insieme che la storia tiene in grembo; bisogna anche essere pronti a considerare senza sorpresa, senza ripugnanza e senza rivolta quanto tutte queste nuove forme sociali di espressione non potranno mancare di offrire di inusitato”.