di Matteo Negri
All’indomani del mancato raggiungimento del quorum ai referendum su lavoro e cittadinanza, il centrosinistra si è diviso tra chi ha valorizzato il dato dei 14 milioni di votanti e chi, invece, ha chiesto una riflessione più profonda sulla sconfitta. Tra questi ultimi c’è Tiziano Treu, ex ministro del Lavoro e presidente emerito del Cnel, che ha bollato il risultato come prevedibile: temi troppo tecnici, divisivi e ancorati al passato. “L’opposizione dovrebbe chiedersi quali siano le vere questioni su cui impegnarsi”, ha rilanciato Treu. A replicare all’ex ministro è Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del Partito Democratico, che difende le ragioni del sostegno ai quesiti referendari, respinge l’accusa di passatismo e rilancia l’urgenza di nuove forme di tutela, capaci di affrontare le trasformazioni presenti e future. Alla base, il bisogno di ripensare il modo di vedere il lavoro: «Si smetta di considerarlo una merce, come se dietro non ci fosse la dignità di una persona e la sua necessità di costruirsi una vita».
Il Partito Democratico è stato accusato di aver guardato al passato sostenendo i referendum sul lavoro promossi dalla Cgil. C’è stata una riflessione dopo l’esito negativo?
Sostenere quei referendum è stato per noi naturale, anche se non nascevano da una nostra iniziativa. C’è un ponte tra passato, presente e futuro del lavoro, che è la necessità di tutelare i diritti essenziali dei lavoratori. In questo caso si parlava del diritto a non essere licenziati senza motivo, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e di evitare che la flessibilità diventi precarietà a vita. La sicurezza sul lavoro, specialmente negli appalti, è un altro tema più che mai attuale. L’affluenza è stata bassa, quindi non siamo certo soddisfatti, ma la vera sconfitta sarebbe abbandonare queste battaglie. Il mercato del lavoro cambia, ma i diritti vanno difesi.
Partiamo dalla sicurezza sul lavoro. Il governo si è detto disponibile a modificare la normativa sugli appalti, pur dovendo considerare i vincoli europei. Qual è la proposta del PD?
Parlare di vincoli europei è fuorviante. Il problema è che il governo ha scelto di permettere un uso illimitato del subappalto, mentre noi chiediamo regole che lo rendano fruibile solo quando veramente necessario. Gli appalti non possono essere un modo per aggirare i contratti collettivi o ridurre le tutele. L’idea alla base del referendum era che non ci si può lavare le mani quando si affida un appalto a chi offre prezzi sotto mercato, perché significa tagliare su salari e sicurezza. Bisogna invece garantire che l’impresa che prende l’appalto sia solida, con mezzi propri e che si assuma i rischi dell’attività. Troppo spesso invece ci troviamo di fronte a false imprese o cooperative, che spariscono dopo un incidente lasciando i lavoratori – o nei casi peggiori le loro famiglie – senza indennizzi. L’azienda deve essere reale, non un serbatoio di manodopera.
Su questo aspetto la ministra del Lavoro ha promesso sforzi ulteriori, a partire dalle ispezioni.
Nel suo intervento, però, non ha tenuto conto delle cause dell’insicurezza sul lavoro. L’Inail ha certificato che il rischio di incidenti mortali è doppio nel caso di contratti a termine rispetto ai contratti a tempo indeterminato. Se si continuano ad assumere giovani per pochi mesi è inevitabile che non siano adeguatamente formati, cosa invece fondamentale per prevenire gli incidenti. L’altro aspetto che mancava era la questione del lavoro nero. Solo ieri, a Latina, un’azienda agricola è stata trovata con otto lavoratori in nero: tutti immigrati senza documenti, mandati nei campi con le ciabatte, magari sotto il sole, quando in quelle zone è proibito lavorare nelle ore più calde. Anche l’immigrazione è un tema legato alla sicurezza, perché oggi facciamo venire persone in Italia per lavorare, ma non riconosciamo loro pari diritti. Questo abbassa le tutele di tutti. Per questo proponiamo da tempo di superare la Bossi-Fini e di creare canali di immigrazione regolare.
L’immigrazione aiuta ad affrontare la carenza dei lavoratori nell’immediato, ma nel lungo periodo l’Italia deve affrontare la sfida della natalità, tema molto caro al governo. Quali sono le vostre idee su questo punto?
Non so se gli sia caro, perché non fa le cose giuste. Come dice Tiziano Treu, c’è un’enorme difficoltà per le donne a conciliare lavoro e maternità. La differenza di occupazione tra uomini e donne è di quasi 18 punti, ma tra madri e padri arriva al 30%. C’è un gender pay gap legato alla maternità che può arrivare al 40% e dura anche vent’anni. Sicuramente servono asili nido e servizi per gli anziani, perché la cura non può gravare solo sulle donne. Ma oltre alla conciliazione c’è un tema di condivisione, per questo la nostra proposta è di congedi paritari per entrambi i genitori. Questo serve sia a creare un rapporto più profondo tra padre e figlio, sia a combattere la discriminazione delle madri sul lavoro. Infine, serve stabilità. I giovani dicono: “Come facciamo a fare figli se lavoriamo con falsi stage o contratti precari che non sappiamo se saranno rinnovati fino alla sera prima?”. Bisogna smettere di vedere il lavoro come merce, come se dietro non ci fosse la dignità di una persona e la sua necessità di costruirsi una vita. Se vogliamo contrastare la denatalità, servono innanzitutto più garanzie per chi vorrebbe fare figli ma non può permetterselo.
In altri Paesi si discute di ridurre l’orario di lavoro e di diritto alla disconnessione. Sono temi che si possono affrontare anche in Italia o è un’utopia?
Insieme a Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra, noi abbiamo presentato una proposta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Non è solo una questione di conciliazione, ma anche un modo per anticipare l’impatto delle innovazioni tecnologiche. Ogni rivoluzione industriale ha portato alla riduzione dell’orario: meglio affrontare subito questo tema ed evitare che, come in passato, per decenni la forza lavoro ne soffra, con una forte redistribuzione a favore dei profitti. La maggioranza ha rimandato la proposta in commissione perché non ha avuto la forza di affossarla in aula, così come non l’ha avuta sul salario minimo, ma non molleremo la presa. Il PD ha anche presentato una proposta sul diritto alla disconnessione, spinti soprattutto dai lavoratori più giovani e da chi è a cavallo tra lavoro dipendente e autonomo. I diritti devono valere per tutti, inclusi gli autonomi: questo vale anche per i congedi parentali.
Parlando di innovazione, c’è il tema delle competenze per il digitale e la transizione ecologica, necessarie anche per invertire l’andamento al ribasso della produttività, che minaccia la tenuta dell’occupazione.
È un punto cruciale. L’Istat e l’Ufficio parlamentare di bilancio ci dicono che l’occupazione cresce più del Pil: questo significa che la compressione salariale spinge le imprese a utilizzare abbondantemente il fattore lavoro e distoglie invece dall’innovazione tecnologica. Se non invertiamo la rotta, il declino dell’economia è inevitabile. Oltre all’alfabetizzazione digitale, è fondamentale il tema della formazione continua. Su questo scommetteva il programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), su cui varrebbe la pena di investire ancora: questo distingueva tra i diversi bisogni di chi non ha mai lavorato, chi deve aggiornarsi, chi deve riconvertirsi. Di fronte all’intelligenza artificiale, la formazione dovrebbe puntare su competenze di base, capacità di apprendimento e di relazione, più che su specializzazioni molto definite. Purtroppo, però, siamo ancorati a modelli formativi tradizionali, slegati dai bisogni effettivi. Inoltre molte imprese, soprattutto piccole, non investono in formazione, né cercano competenze nuove. Il tema tocca anche la sicurezza sul lavoro: noi ci siamo lamentati perché la legge sull’intelligenza artificiale ora in discussione non stanzia risorse per applicarla a questo aspetto. Eppure, ci sono tecnologie efficacissime, dai sensori antiribaltamento per i trattori ai dispositivi per ridurre le emissioni sonore. Su questo opposizione e maggioranza potrebbero lavorare insieme, se ci fosse più condivisione.
Nel caso dei referendum, il Pd aveva seguito l’iniziativa della Cgil. Su queste proposte per il lavoro, quale contributo ci si può aspettare dai sindacati, oggi che il fronte sindacale appare più diviso che mai?
L’unità sindacale è un valore, ma non si può imporre dall’alto. Sindacati e partiti sono soggetti autonomi: ci possono essere piani di convergenza, come è stato nel caso del referendum, ma mai di sudditanza reciproca. Dopo il periodo in cui, anche nel nostro partito, si era sostenuta l’idea della disintermediazione, per il Pd è essenziale l’ascolto e il confronto con tutte le principali organizzazioni sindacali. Questo accade per esempio nei casi di vertenze specifiche sui territori, dove anche le rappresentanze sindacali sono più unite di quanto non siano a livello nazionale. Quando c’è condivisione le battaglie si possono incrociare, nel rispetto dell’autonomia di ciascuno.