Diario del secondo viaggio di Arturo Scotto in Egitto e a Rafah con una delegazione di parlamentari, giornalisti e rappresentanti delle principali Ong italiane che operano a Gaza. 1/
Il Cairo
Inizia così, con un minuto di silenzio per Ali Rashid, amico e compagno appena scomparso, rappresentante storico dell’Olp e primo (e unico) parlamentare palestinese della Repubblica italiana. Lo conoscevamo tutti, era una presenza dolce e determinata dentro e fuori la politica, un uomo che aveva contribuito a raccontare la prospettiva palestinese a milioni di italiani sin dagli anni Settanta.
Qui al Cairo, nella seconda edizione della Carovana per Gaza, non si contano le ONG presenti insieme a parlamentari ed europarlamentari di Pd, M5S, Avs, accademici dell’Università di Firenze, Liverpool, Ferrara e giornalisti di varie testate. Il circuito Aoi (Un Ponte per, Terres des Hommes, Acs, Vento di Terra, Arcs, Oxfam, IPSIA, Educaid, Ciss, Cric), che in questi mesi difficili ha lavorato ostinatamente per garantire l’arrivo di beni di prima necessità a Gaza insieme a Arci, Acli, Assopace Palestina. Il seme di una società civile attiva, che non rinuncia a stare nelle pieghe della più grande tragedia umanitaria degli ultimi trent’anni, nonostante sia poco gradita al governo italiano che non muove un dito per far rinnovare i visti per la cooperazione.
La legge che sarà votata dalla Knesset sulla re-Registration determinerà un blocco quasi definitivo della possibilità di accesso delle Ong in Cisgiordania e Gaza. Motivo? L’essersi schierate in maniera esplicita contro la pulizia etnica, così come l’ha definita non più tardi ieri l’alto commissario dei diritti umani dell’Onu Volker Turk.
Il seminario preparatorio del viaggio verso il valico di Rafah vede sfilare giornalisti palestinesi, le principali organizzazioni non governative presenti nella Striscia, politologi e organizzazioni dei diritti umani. Interventi molto documentati, di chi ha lasciato solo da qualche mese la Striscia: sono già centocinquantamila i gazawi presenti in Egitto dopo il 7 ottobre. Colpisce un filo rosso che collega gli interventi: sono tutti segnati dalla lentezza della reazione occidentale, non vedono una via d’uscita al massacro in corso, le leggi della politica sembrano tutte esaurite.
Ilaria Masieri di Aoi mi dice: un anno fa si era imposta una deadline da parte di USA e Ue molto chiara su Rafah: nessun attacco, nessun tentativo di spingere fuori i palestinesi. Non è andata esattamente così: tutte le linee rosse sono state superate. La fame è diventata un’arma di guerra. E ora incombe il piano di occupazione e la conseguente deportazione. Sdoganata persino nel lessico, come fosse qualcosa di naturale e ineluttabile.
È arrivato alla Casa Bianca Trump che non è riuscito mai ad andare oltre la promessa di una mera speculazione immobiliare persino attraverso un video blasfemo, il numero dei civili morti è cresciuto in maniera spaventosa fino a sfiorare i 60000 (nelle ultime 24 ore più di duecentocinquanta), le infrastrutture sono state annientate all’80 per cento e, ci dice Mohammad el Bakri, da trent’anni direttore del UAWC (Union of Agricultural Work Committees), le terre coltivabili sono ormai ridotte a circa il 10 per cento. Fino a prima del 7 ottobre nella Striscia solo il 50 per cento della carne rossa veniva importata, il resto era prodotto in loco. Ora non c’è più carne bianca disponibile, tantomeno rossa, mancano latte e uova e sul mercato nero tutto costa dieci volte tanto. La pesca non esiste più, azzerata. E in un luogo di mare con 41 km di costa suona come una beffa.
Gaza è un inferno da cui non si scappa e verso cui non si torna. Se vengono ammazzati 217 giornalisti, di cui 27 donne, tutti si trasformano in giornalisti, racconta Abed Nasser Abu On, freelance uscito da pochi mesi dalla Striscia. Testimoniare resta l’unica cosa da fare. E usare i social per raccontare al mondo questa incomprensibile strage dei bambini, questa contabilità macabra dei morti e dei feriti, resta l’unica arma a disposizione di un popolo sfiancato che fa avanti e indietro da sud a nord di Gaza a seconda delle disposizioni logistiche dell’Idf. Le condizioni igieniche sono sempre più precarie, il sistema sanitario è stato quasi integralmente cancellato, la promiscuità di dormitori di 60 persone è la cosa più ordinaria. Si chiama guerra e non l’hanno dichiarata i civili.
Hamas è fuori gioco, dice Omar Shaban, fondatore e direttore di PalThink for Strategic Studies: vale il 5 per cento nei sondaggi tra il popolo della Striscia, sa benissimo che non potrà partecipare a un’eventuale ricostruzione. Lui lavora da dieci anni alla riconciliazione nazionale palestinese, è un politologo che collabora con il Governo svizzero per agevolare il negoziato. Guarda con pessimismo alla soluzione “due popoli, due Stati”. Spiega che quella prospettiva è morta con Rabin e Arafat, non vede altra strada che uno Stato binazionale. Ma lui stesso sa che ci vuole un profondo cambio politico nella leadership innanzitutto israeliana che il mondo fa di tutto per non spingere.
«Non siamo stati noi a scrivere la Convenzione di Ginevra» – spiega Raji Sourani, Palestinian Center for Human Rights – «i primi a doverla fare rispettare dovreste essere voi europei». Siete complici, in soldoni, perché vi date regole sulle vittime civili di guerra e poi le aggirate: come possiamo fare affidamento sulla vostra parola? Negli ultimi due mesi non è entrato nemmeno uno spillo a Gaza, anche le esfiltrazioni di bambini malati di cancro o di altre patologie gravi sono bloccate, ci spiegano dall’ambasciata italiana. Il nostro paese ne ha curati oltre quattrocento in questi mesi.
Stamattina partiamo per il Sinai verso Rafah, tappa intermedia El Arish dove faremo un seminario con i giuristi italiani che hanno seguito presso la Corte Penale Internazionale la messa in stato di accusa di Nethanyahu, Gallant e dei vertici di Hamas per crimini contro l’umanità. Sarà una traversata molto lunga – tra le sette e le nove ore di autobus – perché i controlli sono severi e continui e la zona è altamente militarizzata.
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