di Umberto De Giovannangeli
Arturo Scotto, capogruppo Pd alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale, su cosa si giocherà la battaglia d’autunno?
La verità è che nei prossimi mesi il governo rivelerà il proprio volto antisociale. In maniera molto più marcata rispetto al passato. La destra si rifugerà nei temi identitari per compensare l’incapacità di risolvere i problemi economici della maggioranza degli italiani, che hanno perso potere d’acquisto, che vedono crescere la dismissione di servizi universali come la sanità e la scuola, che si confrontano ogni giorno con un lavoro che si precarizza. Si aprirà un conflitto pesante, diventeranno aggressivi, colpiranno le fasce più deboli della popolazione spolpando quel che resta del welfare state per evitare che l’Europa ci mandi dritto in procedura di infrazione. Non si sono fatti scrupoli a tagliare il reddito di cittadinanza facendo cassa sui più poveri. Hanno risparmiato tre miliardi senza porsi il problema delle conseguenze. Nel frattempo, stanno appaltando al privato una parte rilevante della sanità: il decreto “liste di attesa” è la diretta conseguenza della logica dell’autonomia differenziata. Siamo al modello lombardo esportato nel paese intero. Ma non basta…
Cos’altro ancora?
Nel frattempo, prosegue la tendenza alla deregolamentazione più sfacciata nel mercato del lavoro: dalla somministrazione al superamento del divieto delle dimissioni in bianco fino all’allentamento sui controlli nelle aziende con tanto di preavviso e di sanatoria per “errori scusabili”. Finisce la leggenda metropolitana della destra sociale. Loro usano la questione sociale per alimentare le paure e i conflitti, non per sostenere una crescita sociale equa. Prendiamo la questione previdenziale: ci hanno costruito una intera campagna elettorale sulla parola d’ordine: “abolizione della legge Fornero”. Non solo non hanno toccato nulla, ma l’hanno persino peggiorata, chiudendo i rubinetti a misure come Opzione donna, che stanno via via definanziando. La dinamica salariale così bassa, la difficoltà a chiudere contratti che consentano di recuperare il potere d’acquisto, la frammentazione del lavoro precario e intermittente, consegnerà alle generazioni future un destino di pensioni da fame.
Io sono colpito del fatto che dopo la tragedia di Satnam Singh non sia accaduto nulla se non le solite frasi di circostanza. Non è stata messa in campo nessuna misura vera contro il caporalato. Si sono limitati a integrare un po’ di banche dati ma non sono andati alla radice del problema. Che è la legge Bossi-Fini, che produce la catena infinita della clandestinità. Bisogna garantire il diritto alle persone che vogliono denunciare il caporale e le condizioni di sfruttamento a restare, ad essere protetti, a poter continuare a lavorare in condizioni dignitose e sicure. E allo stesso tempo occorre intervenire, come si è fatto sull’edilizia, per individuare gli indici di congruità attraverso il Documento unico di regolarità contributiva. Vuol dire che se ho dieci ettari di terreno e nessuno dichiarato a lavorare ma produco le pesche e i meloni non esiste che acceda ai finanziamenti europei. Qualcosa non va. In edilizia ha fatto emergere oltre centomila persone in nero, in agricoltura potrebbe avere lo stesso effetto, cancellando la concorrenza sleale di imprese che fanno dumping salariale rispetto a chi rispetta la legge e scommette sulla qualità del lavoro e dei prodotti. In provincia di Latina dal 1° giugno al 15 luglio c’è stato un boom di assunzioni regolari, più del 54% rispetto all’anno precedente. È un effetto dei controlli ed anche dell’uso intelligente della tecnologia attraverso i droni. Vuol dire che si può fare. Ma non si può arrivare sempre a valle, sempre il giorno dopo le tragedie che producono onde emotive. C’è bisogno di una presenza dello stato permanente. Non dimentichiamo che l’impresa Lovato, quella che ha lasciato morire come un cane Satnam Singh, continuava a prendere soldi pubblici, pur essendo sotto processo da dieci anni. Non è accettabile.
E sul terreno delle politiche fiscali?
Meloni ha gettato il sasso sulla tassazione degli extra-profitti su banche e assicurazioni e poi si è immediatamente fermata e ha smentito. Un dato è certo: quando si tratta di chiedere un sacrificio a chi è potente e influente sono mille le cautele che si usano, mentre sul salario minimo non si sono fatti scrupoli a demolire una proposta che è in vigore in tutta Europa e che puntava ad alzare il salario di quattro milioni di lavoratori poveri. Le aggiungo che quando hanno affossato la nostra proposta a dicembre scorso, trasformandola in una delega al governo, hanno promesso che avrebbero corso come i treni per approvare il loro testo. Non è accaduto nulla. Al Senato non è stato nemmeno incardinato. Sette mesi in cui il governo non ha fatto nulla sui salari bassi e non ha messo i soldi sufficienti sui contratti del pubblico impiego oltre che disinteressarsi del rinnovo di contratti importanti come quello dei metalmeccanici e degli edili. Ricordiamoci che l’Ocse certifica che siamo il paese in Europa che è rimasto al palo sul potere d’acquisto, senza recuperare l’inflazione generata dalla pandemia. È anche così che si spezza l’unità del paese.
La denuncia è chiara. E la proposta?
Servirebbe una visione: un patto tra le forze che producono fondato sulla qualità e i diritti. Questo in fondo era il terreno su cui si è immaginato il Next generation Eu. Non regge invece il sistema Italia se si mette sulla scala bassa della catena del valore globale. Ci vogliono politiche industriali che accompagnino la transizione digitale e ambientale, non risorse sparse a pioggia che non hanno alcun effetto moltiplicatore. Bisogna mobilitare le forze del cambiamento, non assecondare stancamente i meccanismi di un capitalismo relazionale che non scommette sull’innovazione. La destra difende questa rendita e ricostruisce percorsi corporativi nelle relazioni industriali.
In tutto questo, il Pd?
Il Pd è in salute perché si è messo in sintonia con una domanda diffusa nelle giovani generazioni di lotta alla precarietà, qualità del lavoro e di salari dignitosi. Elly Schlein ha lavorato sodo per invertire l’immagine di un partito ancora intrappolato nella retorica del Jobs act come leva di modernizzazione del mercato del lavoro. La Consulta lo ha fatto a pezzettini con sentenze plurime, i cittadini hanno firmato in massa ai referendum promossi dalla Cgil così come lo stanno facendo sull’autonomia. Ma soprattutto la domanda è semplice: ma cosa c’è di moderno nel consentire la libertà di licenziamento senza giusta causa? Nessuno finora è riuscito a spiegarlo. Eppure, ci sono stati anni in cui chiunque alzasse la voce per dire che non era d’accordo veniva considerato nella migliore delle ipotesi un troglodita incapace di capire come andava il mondo. Ne è venuta fuori una frattura con il mondo del lavoro che faticosamente stiamo provando a colmare.
Il che porta anche ad un ragionamento sull’identità, il radicamento sociale, l’organizzazione del Pd.
Un partito del lavoro è anche un partito di lavoratrici e lavoratori. Che lo abitano, lo attraversano, contribuiscono a dirigerlo. Negli anni, in tutta la sinistra, non solo nel Pd, il peso del mondo del lavoro è diminuito per tante ragioni. Questo non ha fatto specularmente bene nemmeno al sindacato. L’effetto sono dei partiti sempre più leggeri e radicati nei ceti medi metropolitani e un sindacato che via via si è spoliticizzato, insidiato anche dalla concorrenza sleale di sindacati gialli e corporativi sponsorizzati da questa destra che combatte per principio l’idea di una legge sulla rappresentanza. Se guardiamo i parlamenti dell’Europa occidentale la crisi dei partiti figli del movimento operaio ha espulso una parte della società dalla direzione dello stato. Oggi ci avviciniamo sempre di più a una democrazia fondata sul censo: non a caso si sono spostati 11 punti di Pil dal lavoro alla rendita. È come se si fosse fermata la lunga corsa verso l’uguaglianza che nella seconda metà del ‘900 ha permeato le democrazie europee. Sul nostro versante credo che dobbiamo cominciare a riflettere su forme di parità sociale – lo propone Piketty in un recente saggio sulla storia sociale elettorale della Francia – che consentano a impiegati e operai di accedere agli organismi dei partiti e alle assemblee elettive. Persino attraverso qualcosa che assomiglia alle quote. Dobbiamo cominciare a metterci la testa, se vogliamo salvare la democrazia dobbiamo far uscire dal privato questo pezzo di società ormai pesantemente fuori.
Una visione non è anche andare oltre la sola dimensione “quantitativista “del lavoro?
Dobbiamo aprire una stagione di mobilitazione sulla qualità del lavoro. La settimana corta esiste e viene sperimentata in mezza Europa. Spagna, Francia, Germania, Gran Bretagna. In Italia alcune aziende come Luxottica, Lamborghini, Intesa-San Paolo, hanno avviato la settimana corta in accordo con il sindacato. E nonostante i vaticini dei liberisti, queste scelte hanno incrementato la produttività e conciliato tempi di vita e tempi di lavoro. A settembre il nostro testo di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario andrà finalmente al voto in commissione e poi in aula. Mi auguro che la destra non si metta contro un dato ineluttabile della storia. Non c’è mai stata una rivoluzione tecnologica senza una radicale riduzione del carico di lavoro. Anche per salvare occupazione e dare un segnale alle generazioni nuove che non ne possono più di sfruttamento e precarietà. Se non lo fa la politica, ci penserà il mercato. Temo con morti e feriti. Allo stesso tempo, si deve aprire un dibattito serio nel paese sul diritto alla disconnessione su cui abbiamo presentato un ddl che prova a essere anche una risposta a fenomeni di burn out e di dimissioni, molto diffusi soprattutto nel post pandemia e con la diffusione sempre più forte del telelavoro. C’è un lavoro che ha mansioni intellettuali che non può essere dimenticato o considerato privilegiato. Qui picchieranno più duro gli effetti del salto dell’Intelligenza artificiale.