Diario del secondo viaggio di Arturo Scotto in Egitto e a Rafah con una delegazione di parlamentari, giornalisti e rappresentanti delle principali Ong italiane che operano a Gaza. 2/
Al Arish, Egitto
Sette ore e mezzo di viaggio attraverso il Sinai per arrivare ad Al Arish, a pochi chilometri da Rafah. Quattro posti di blocco superati, in una zona sempre più militarizzata, dopo l’attraversamento del Canale di Suez, dove siamo accompagnati dall’ambasciata italiana in costante contatto con le autorità egiziane. Il deserto ci presenta una realtà poverissima: decine e decine di villaggi beduini la cui caratteristica principale sono le abitazioni quasi mai finite e le strade dissestate e largamente impraticabili per le automobili.
È zona di guerra, dunque è vietato fotografare le attrezzature militari; il coprifuoco inizia al tramonto: l’ultimo grande attentato terroristico dei fondamentalisti islamici del Daesh ci fu nel 2017 con oltre trecento morti, ma evidentemente la tensione resta alta e le misure di sicurezza stringenti. Così come la consapevolezza che l’Egitto è il primo approdo possibile per i palestinesi qualora arrivasse a compimento il piano di Netanyahu di espulsione dalla Striscia.
Ma l’Egitto è un gigante di 110 milioni abitanti dai piedi di argilla. Già oggi ospita 9 milioni profughi, prevalentemente siriani e sudanesi, se dovesse caricarsi anche due milioni di gazawi in uscita dalla Striscia dopo un anno e mezzo di bombardamenti ne verrebbe probabilmente destabilizzato nonostante il controllo ferreo del regime dei media e delle piazze. Nella popolazione civile l’emergenza di Gaza viene vissuta con trasporto ed angoscia, tant’è che lo stesso Al Sisi non può derubricare tutto a emergenza umanitaria. La Palestina è un fatto politico anche per l’Egitto, tant’è che da qui parte l’unico vero piano credibile di ricostruzione di Gaza e di fine delle ostilità: quello della Lega Araba sostenuto dall’Ue e dall’Onu.
Nel frattempo persino il Governo italiano è costretto a dare qualche segnale di vita e chiedere l’ingresso immediato degli aiuti umanitari e il cessate il fuoco.
L’operazione “carri di Gedeone” è in corso, i bombardamenti sono ripresi in maniera continua e martellante e hanno fatto centocinquanta vittime almeno nel primo giorno, mentre l’Idf lancia volantini per informare la popolazione che sta per entrare e restare definitivamente.
Parte l’appello di Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni per chiedere a Tajani e Meloni di fare pressione perché la delegazione della Carovana di parlamentari e ong possa entrare a Gaza: sarebbe la prima dopo mesi in cui non entra nemmeno un pacco di farina. Questa richiesta non riceve nemmeno una risposta formale dal Governo.
La questione degli aiuti e di chi li distribuisce è centrale, qui si consuma un pezzo delle scelte future su Gaza. Il Governo israeliano ha in testa due mosse, relaziona Paolo Pezzati, portavoce di Oxfam: la re-registrazione e la nascita di zone umanitarie militarizzate. La prima significa selezionare chi può entrare a fare cooperazione, chiudendo definitivamente la partita con quel tessuto associativo che finora a Gaza aveva garantito progetti di cooperazione allo sviluppo. I visti verranno negati a chi ha espresso giudizi critici sulle operazioni militari, condannato la guerra o sostenuto forme di boicottaggio commerciale. Questo varrà anche per le Ong israeliane: devono scomparire i testimoni, in sostanza.
Allo stesso tempo, il piano del Cogat (coordinamento delle attività governative del ministero della difesa nei Territori) prevede che nascano dai 3 ai 5 hub umanitari nel centro e nel sud della Striscia protetti direttamente dai militari israeliani e gestiti da contractors. Molto rigide le regole per accedervi: controlli biometrici per chiunque entri ed esca e nient’altro che distribuzione di cibo. Fuori le Ong, e soprattutto fuori l’Onu: nonostante il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite con la risoluzione 2720/23, ci spiega la Professoressa Annoni dell’Università di Ferrara, individui ancora una volta nell’Unrwa il soggetto che deve occuparsi delle necessità fondamentali dei rifugiati.
Intervengono, nel seminario serale ad Al Arish, anche Micaela Trulli, docente di diritto internazionale a Unifi e Triestino Mariniello, docente a Liverpool e difensore presso la Corte Penale Internazionale delle vittime civili di Gaza. Il diritto umanitario resta l’unica arma per chiedere giustizia per chi ha perso tutto e in ogni caso per stabilire che non esistono doppi e tripli standard. Cosa che vista da qui, a pochi chilometri dalla tragedia umanitaria dove la fame viene usata come arma di guerra appare purtroppo utopistico.
Oggi saremo al Valico di Rafah e visiteremo due grandi magazzini dove sono stoccate le centinaia di migliaia di tonnellate bloccate. Stanotte si è sentita qualche bomba esplodere, d’altra parte solo una trentina di chilometri di spiaggia e Gaza è lì. La vedi a occhio nudo. Ma nemmeno quel mare è una via di fuga.
2/ segue. Qui il primo articolo.