Pubblicato su Strisciarossa.it
di Maria Cecilia Guerra
Sostenere i quattro referendum abrogativi sul lavoro, così come quello sulla cittadinanza, pur non avendoli promossi, è stata una scelta fisiologica per il Partito democratico.
Si sapeva che era una sfida molto difficile, non solo perché l’astensionismo è già da molte elezioni, anche non referendarie, il partito di maggioranza relativa, ma anche perché la previsione di una percentuale di partecipazione al di sotto della quale la consultazione non è valida, il quorum, facilita il compito di chi è contrario nel merito ai referendum e può sfruttare a proprio vantaggio, alimentandone la schiera, la posizione di chi non vota per tutt’altre ragioni.
Ma anche per queste sue caratteristiche il referendum abrogativo pone di fronte a una scelta netta: o è sì o è no. Predicare, per convinzione o opportunismo, l’astensione equivale a dire di no.
Non potevamo non combattere i licenziamenti ingiustificati
Poteva il Partito democratico avere dubbi sulla parte da cui stare? Io penso proprio di no.
Penso che non poteva, e non può, avere dubbi sulla necessità di rafforzare le tutele contro i licenziamenti ingiustificati, esplicitamente difese anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E che ha fatto bene a farlo, senza lasciarsi intrappolare nelle responsabilità del passato, nella consapevolezza che le ipotesi su cui alcune di quelle norme erano state costruite, oltre a non avere superato il vaglio costituzionale (un problema troppo spesso trascurato nel dibattito), non hanno trovato la realizzazione per cui erano state pensate. Il modello della flex security ha camminato principalmente sulla sola gamba della flessibilità.
Non poteva dire di no sulla battaglia volta a evitare che questa flessibilità diventi precarietà a vita. Perché è fisiologico che i contratti a termine calino in questi ultimi anni di difficoltà economica: è proprio la loro funzione sgonfiarsi e gonfiarsi a seconda dell’andamento dell’economia, non a caso il calo più grosso si è avuto in epoca Covid. Ma non possiamo nasconderci che è invece patologico che i giovani, non quelli giovanissimi che magari si dedicano a lavoretti con cui fanno esperienza e si mettono alla prova, ma quelli fra i 24 e i 34 anni, siano ancora coinvolti, per il 24% del totale, in contratti a termine e restino intrappolati in questa realtà per un numero rilevante di anni. Non poteva dire di no, dopo che in Parlamento ci siamo battuti strenuamente contro il decreto Primo maggio e il collegato lavoro che hanno ampliato a dismisura tutte le forme di precarietà, dal contratto a termine al lavoro somministrato, alla stagionalità stiracchiata fino a diventare realtà di tutti i giorni, ai voucher.
Non poteva dire di no alla necessità di affrontare il tema della sicurezza sul lavoro, partendo proprio dai luoghi dove gli incidenti sono più frequenti: la catena degli appalti e subappalti, come riconosciuto oramai perfino dal governo, anche sotto la spinta del dibattito referendario.
Non poteva dire di no alla necessità di considerare gli immigrati regolarmente presenti in Italia non come semplice forza lavoro usa e getta, da sfruttare per rispondere a esigenze del nostro mercato del lavoro, ma da tenere perennemente sotto il ricatto di un permesso di soggiorno da rinnovare. Anche quando hanno ormai qui le loro radici, lavorano, hanno famiglia e pagano tasse e contributi nel nostro paese.
Le nostre battaglie guardano al futuro non al passato
E non poteva dire di no perché queste battaglie non sono affatto rivolte al passato, guidate da un improbabile specchietto retrovisore. Il diritto a non essere licenziati senza un valido motivo, a non essere considerati una merce che si compra a chili, ma persone portatrici di dignità e progetti di vita, a non recarsi al lavoro rischiando ogni giorno di morire, a essere considerati essere umani anche quando si proviene da un altro paese, sono diritti fondamentali che, opportunamente declinati nei diversi momenti storici, sono comunque irrinunciabili.
Ci aspettavamo una partecipazione più alta, inutile negarlo. La scarsa affluenza spinge la destra, sguaiata e volgare, a disprezzare i 15 milioni di persone che si sono comunque recate al voto, ad attribuire forzatamente al no, che non ha però mai avuto il coraggio di pronunciare, l’intera massa dell’astensionismo. Senza rendersi conto, o volutamente ignorando, che essa stessa governa con una minoranza dei voti del paese, e trascurando il fatto che si sono premurati di recarsi alle urne per sostenere con il loro voto i partiti di questa maggioranza un numero inferiore di cittadini rispetto a quelli che hanno sostenuto, con il loro sì, i referendum sul lavoro.
Ci aspettavamo una partecipazione più alta ma non abbiamo nessuna intenzione di fare lo stesso errore della destra, trasformando automaticamente in voti politici a sostegno dei partiti che li hanno appoggiati i sì arrivati a questi referendum.
Ci sono però due considerazioni importanti che incoraggiano e indicano il cammino che ci aspetta.
La battaglia referendaria ci ha fatto incontrare il nostro mondo
Prima di tutto, la grande mobilitazione che ha accompagnato questi referendum, in cui abbiamo combattuto, a fianco di Cgil, associazioni, altri partiti di opposizione per il sì, con i soli nostri mezzi, offuscati dal servizio pubblico televisivo e dal principale gruppo televisivo privato, fatti oggetto di interpretazioni forzate e molto spesso distorte, nella stampa e nei media in rete, da parte di tanti commentatori molto noti, ci ha permesso di entrare a contatto con migliaia e migliaia di cittadini, sui posti di lavoro, nelle piazze, nei mercati, nelle scuole. Cittadini che non incontravamo da tempo, con cui abbiamo intrecciato un nuovo dialogo, fatto di ascolto e di proposte. Un patrimonio inestimabile con cui costruire proposte e battaglie future. Un mondo che non chiede solo rappresentanza, ma anche protagonismo, e proprio per questo ha apprezzato lo strumento del referendum: uno strumento di democrazia diretta, a fronte dell’indebolimento dell’efficacia di quella indiretta, per via parlamentare. Pur se rozzo nella semplificazione che impone per la sua natura esclusivamente abrogativa. Ci ha permesso di costringere per alcuni mesi a non potere ignorare i temi del lavoro e della cittadinanza un paese riottoso a parlarne. E anche quando ci dicevano che il problema è ben altro non potevano che citare la questione salariale, che è la nostra battaglia numero uno per il lavoro e che loro stessi boicottano e denegano da mesi. Ignorando forse che lavoro precario e bassi salari sono argomenti che si parlano eccome, che i salari più bassi li prendono gli immigrati e che nella catena degli appalti e subappalti non sono solo le tutele ma anche i salari a essere compressi.
La seconda considerazione è che sì, ci aspettavamo una partecipazione più alta, ma l’errore non è stato battersi con forza per i cinque sì, in una battaglia in cui non si poteva stare che di qua o di là, l’errore sarebbe, ora, rinunciare a continuare questa battaglia, portandola oltre i quesiti referendari, per loro natura circoscritti, per tenere alti i principi irrinunciabili che li sottendono e che sono cruciali per la nostra identità morale oltre che politica.