Diario dal confine di guerra: Stop complicity. I sigilli di Rafah /3

Arturo Scotto
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Mario Rossi - La Repubblica

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Diario del secondo viaggio di Arturo Scotto in Egitto e a Rafah con una delegazione di parlamentari, giornalisti e rappresentanti delle principali Ong italiane che operano a Gaza. 3/

Valico di Rafah

Ogni tre minuti si sentono esplosioni. Al valico di Rafah, chiuso dal 4 maggio dello scorso anno, gli attacchi sono continui e martellanti. A meno di 500 metri c’è la guerra che ha lasciato sul terreno decine di migliaia di morti e una quantità di feriti non calcolabile. La notte è stata dura, più di cento morti, i colpi si sono sentiti anche a trenta chilometri distanza, proprio nel luogo dove dormivamo. Enormi fasci di luce erano visibili ad occhio nudo dalla spiaggia che collega Al Arish a Rafah e quindi alla Striscia.

Al valico ci accoglie la Mezzaluna rossa – davanti all’ingresso dove la delegazione terrà un flashmob simbolico stendendo a terra peluche, quaderni, vestitini in memoria di questa immensa strage di bambini innocenti ed esibendo uno striscione “Stop complicity” con i volti dei capi di governo europei – schierata davanti alla grande porta da cui fino a qualche tempo fa entravano i camion e uscivano i palestinesi. Ora è tutto sigillato.

Ci spiegano che l’unico valico aperto è quello di Kerem Shalom, lato israeliano. Peccato che anche da lì non entra nulla perché tutto è bloccato. Nel corso di questo anno e mezzo di guerra a Gaza, i camion che entravano erano in media una ventina, soltanto nella brevissima fase del cessate il fuoco da fine gennaio fino agli inizi di marzo riuscivano a entrarne fino a trecento al giorno. Teniamo conto che il fabbisogno di aiuti esterni della Striscia prima del 7 ottobre era calcolato in 6-700 tir al giorno!

Ovviamente entrava rigorosamente materiale che Israele doveva verificare e che considerava “non pericoloso”. Le direttive prevedono che è da ritenere “pericolosa” ad esempio una bombola d’ossigeno, una torcia elettrica, una sedia a rotelle, un frigorifero. Perché è dual use, può avere anche un uso militare.

Poi c’è quello che viene ritenuto “superfluo”: la Mezzaluna Rossa ci ha mostrato anche un pallone da calcio, un portacolori, uno zaino verde militare e gessetti e penne colorate come materiale da sequestrare. Quei kit accatastati con i giochi dei bambini ti lasciano senza fiato. In tutte le guerre la burocrazia delle linee guida produce effetti stupidi oltre che sadici.

Ma lo scandalo non è solo questo: se tu non riesci a garantire la catena del freddo, nemmeno gli antibiotici e i vaccini riesci a somministrare. E dunque, siccome i refrigeratori sono vietati perché l’esercito israeliano li equipara potenzialmente ad armi, non entrano a Gaza nemmeno i medicinali.

Dire che la fame è diventata un’arma di guerra non è dunque un giudizio radicale. I pacchi di farina, i biscotti, il riso, lo scatolame – nei due hub della Mezzaluna tra Rafah e Al Arish che abbiamo visitato – spesso sono tenuti all’aperto perché non c’è più spazio dove metterli. Tant’è che stanno costruendo altri capannoni, nonostante quelli attuali abbiano rispettivamente cinquantamila e trentamila metri quadrati di spazio. Si preparano a una lunga crisi.

Sono aiuti dell’Unione Europea, del Brasile, della Turchia, dei paesi del Golfo: non è chiaro onestamente perché questo non determini una reazione da parte di questi paesi. Per quel che riguarda l’Italia ci spiegano che i circuiti sono altri – ma non lo specificano – e in ogni caso qui nei magazzini di Rafah da mesi non arriva praticamente nulla. Le file dei camion spiaggiati a dieci km dal valico impressionano, sono un pugno nello stomaco, un’inutile vessazione. Ti dimostrano che il cibo e i medicinali ci sono, perfettamente a portata di mano. Quello che non c’è è l’accesso.

Durante il Ramadan del 2024, la Mezzaluna Rossa era in grado, insieme al team dell’Onu (Unrwa, Ocha, World food program e OMS), di garantire 50.000 pasti caldi al giorno. Una goccia nel mare, per loro stessa ammissione. Nel 2025 nemmeno uno, perché il blocco di aiuti è stato fatto esattamente durante i giorni del digiuno. Una follia, eppure è accaduto.

Come è accaduto che venissero ammazzati 430 operatori umanitari (di cui 422 palestinesi), 305 membri degli staff Unrwa-Onu, 44 membri degli staff della Mezzaluna rossa palestinese, 1400 operatori sanitari, 110 addetti alla protezione civile, 81 operatori umanitari (ong, educatori, diritti umani ) e, infine 217 giornalisti.

La stampa italiana che in questi giorni ha raccontato sui giornali e televisioni la Carovana per Rafah ha deciso di fare un video di solidarietà con i colleghi morti ammazzati nella striscia di Gaza per richiamare il diritto dovere di poter informare liberamente senza mettere a rischio la propria vita. Un gesto di solidarietà non scontato, ma dal valore enorme.

Lasciamo Rafah con la consapevolezza che non c’è alternativa a un immediato cessate il fuoco, all’ingresso degli aiuti – Ocha ci spiega che è in grado di mobilitare subito 2500 camion di aiuti – e a una ripresa di centralità delle Nazioni unite nella difficile fase di transizione post guerra.

Ma questi sono obiettivi minimi che non sembrano immediatamente traducibili in realtà. Purtroppo i fatti ci dicono che Idf sta intensificando in maniera massiccia l’aggressione via terra con l’operazione “carri di Gedeone” e i cadaveri dei civili si contano a centinaia.

Mentre torniamo verso Il Cairo arriva la notizia che Bibi Netanyahu sarebbe intenzionato a far rientrare da subito gli aiuti umanitari nella Striscia. Non conosciamo ancora con quale piano, da quanti e quali valichi e soprattutto attraverso chi. Il tema di chi distribuisce gli aiuti è fortemente politico, non è una scelta neutrale. Le Nazioni unite in un tempo di guerra sono l’unica garanzia che essi arrivino a destinazione e siano gestiti senza ulteriori umiliazioni per i civili. La partita degli aiuti non può essere l’antipasto dell’annessione definitiva dichiarata dal Governo israeliano. E soprattutto appare difficile che essi possano arrivare a destinazione senza un cessate il fuoco permanente che consenta di dare il via alla ricostruzione di quelle infrastrutture vitali che rendano abitabile il luogo attualmente meno abitabile del mondo.

Tutto questo sembra scontato visto da qui, ma non lo è là dove qualche decisione viene pur presa. Continuiamo a parlare di iniziativa europea ma nemmeno l’embargo delle armi è stato possibile fare tutti insieme. A Netanyahu è stato consentito quello che fino a ad appena cinque anni fa appariva impensabile: cacciare le Nazioni unite, sospendere i visti ai cooperatori, bloccare cibo, acqua e medicinali, infischiarsene della Corte Internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale.

Il 7 ottobre è stato un stress test non solo per la democrazia israeliana. Ad essa ha cambiato definitivamente i connotati: poteva aprirsi al mondo dopo gli attentati terroristici di Hamas, chiedere che venisse fatta giustizia con l’obiettivo di ricostruire una trama di alleanze in Medio Oriente che gli consentisse stabilità e sicurezza. Ha scelto invece, unilateralmente, la strada di una vendetta cieca che punta alla distruzione di un popolo. E oggi è nel mirino di un’opinione pubblica internazionale che, molto più dei Governi occidentali di cui sono cittadini, chiede di fermare la guerra e dare uno Stato ai palestinesi. Governi che – salvo rare eccezioni – hanno scelto o la complicità o l’indifferenza. Da questa latitudine si percepisce chiaramente. E fa rabbia.

3/ fine. I precedenti articoli sono qui e qui

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Il 25 novembre si è tenuta a Roma la prima iniziativa di Compagno è il Mondo. Sono intervenuti tra gli altri: Pier Luigi Bersani, Maria Cecilia Guerra, Elly Schlein, Arturo Scotto, Michael Braun, Cristian Ferrari, Michele Raitano, Alessandra Raffi.
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